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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

“Vi racconto la mia prigione a Guantanamo” – Adel Ben Mabrouk è un uomo che ha fatto il jihad in Afghanistan, che ha discusso, sognato e combattuto con Bin Laden, che era a Tora Bora, nel cuore di una pagina grondante la Furia del mondo

“Vi racconto la mia prigione a Guantanamo” – Adel Ben Mabrouk è un uomo che ha fatto il jihad in Afghanistan, che ha discusso, sognato e combattuto con Bin Laden, che era a Tora Bora, nel cuore di una pagina grondante la Furia del mondo. E che è stato otto anni a Guantanamo. Non ha abiurato, non si è pentito, non è un uomo diverso. Oggi Adel Ben Mabrouk vive a Tunisi nel quartiere di el Zaharouni, dove il 90 per cento dei giovani come lui è disoccupato o ha «lavorato» nello spaccio. E questa è stata in Italia un’altra delle sue vite, prima di scoprire il jihad. Impugna la fede: per combattere, ancora, dietro la sua stemmata potenza, ma anche per celarvi le sue innumerevoli ombre. Il primo giorno «Forse non ci credi ma che giorno fosse, domenica lunedì, non lo ricordo... Il primo giorno! L’anno, quello lo ricordo, certo: fine 2001. Le sedici ore di volo da Kandahar, quelle le ricordo, eccome. Anche se non sentivo non vedevo non potevo parlare gridare minacciare chiedere aiuto. Perché mi avevano messo cuffie alle orecchie, davanti agli occhi una maschera di quelle che usano i fonditori e alla bocca una museruola come ai cani. Ero, eravamo, perché sentivo che l’aereo era pieno, con manette e catene, le braccia e le gambe legate insieme sicché era impossibile muoversi e a ogni spostamento provvedevano due soldati, sollevandoci come sacchi. Da mangiare ci diedero una mela e un panino di farina di arachidi. Quando l’aereo è arrivato a Guantanamo e ci hanno portato al campo, ci hanno tolto i vestiti che ci avevano dato a Kandahar, dove faceva freddo. Tolti... Li hanno tagliati con le forbici! e poi nudo alla doccia, in uno spazio grande e l’acqua era tiepida, calda. Sai, a Guantanamo il clima è splendido, meglio che qui in Tunisia, sempre 23˚, 24˚ da farci una vacanza... Poi dentro una tenda, attento, non alzare la testa, cammina guardando in basso e lì c’era la visita medica, la matricola e ti davano la tuta arancione. Quella che ho portato fino al 2004 quando sono passato in un’altra zona del campo e il colore è diventato tinta piombo. Erano le due del pomeriggio quando sono entrato a Guantanamo e quella prima parte del campo la chiamano «il posto per l’addestramento dei cavalli». La mia casa per otto anni l’ho scoperta quando ormai era il tramonto, la gabbia, come per i polli, un quadrato di due metri e mezzo e quando entravi e uscivi ogni volta per otto anni la stessa cerimonia. In ginocchio, una guardia ti toglieva una catena e ti metteva una braccio dietro la testa che un’altra guardia ti teneva, e poi la stessa procedura per l’altra e dopo i piedi e poi eri «libero»... Lì ho scoperto la mia roba: un materassino, due lenzuola e due coperte, il bugliolo per i bisogni che la guardia portava via una volta al giorno, sapone dentifricio, una borraccia. Nelle due gabbie vicino a me ho scoperto i miei compagni, i miei fratelli. Erano sessanta le gabbie, in quel braccio, ma potevo vedere solo quella di fronte e quella di lato. Dopo un giorno di silenzio avevo bisogno di parlare, un bisogno atroce, fisico. Sapevo che quei due uomini con la stessa tuta arancione erano miei fratelli, compagni di fede, di lotta e di viaggio. E invece: due sconosciuti, non li avevo mai visti. A Kandahar ci avevano rasato i capelli, tagliato la barba e quei fratelli, uno yemenita e l’altro saudita, non li avevo riconosciuti». Il Corano «È stata la prima volta che ho parlato con una guardia: subito appena entrato nella gabbia, e ho chiesto un Corano. Ne avevo bisogno, non riuscivo a pensare ad altro, dov’ero che cosa mi sarebbe successo, volevo un Corano, la mia vita dipendeva da quello, in fondo era la causa per cui ero lì. È la sola cosa che toglie la sofferenza e ti dà la voglia di vivere, ti offre la pietosa sopportazione. E l’interprete mi ha assicurato che il giorno dopo l’avrebbero portato. Ho pregato subito con i miei due fratelli prima di dormire e ho pregato il mattino all’ora del rito del mattino. Non ero come il mio compagno tunisino Rafik el Hani, guardia del corpo di Bin Laden, o i 14 accusati di aver partecipato all’11 settembre, nella zona più dura, nel buio totale. I riflettori del campo illuminavano le gabbie 24 ore su 24. Il mattino mi hanno portato il primo dei tre pasti, il breakfast: latte, un uovo, due sottilette di formaggio, una arancia e ho pensato, guarda questi americani che mettono insieme uova e arance...». L’interrogatorio «Il primo, il primo di duecento, nemmeno 24 ore dopo che ero arrivato. La stanza è di legno a 500 metri dalla mia gabbia, un soldato alla porta, l’interprete e l’interrogatore. Non mi hanno, in otto anni, mai picchiato, mai fatto violenze fisiche. L’ho capito subito il loro metodo, è diverso, non si stancano mai, non mollano, ti girano attorno, hanno il respiro lungo. Le notizie che avevano su di me, il mio dossier, era chiaro, lo avevano riempito dopo la cattura i Servizi tunisini del dittatore Ben Ali. La regola era chiara: se ci aiuti se ci dai informazioni il regime qui dentro può diventare meno duro. Se ho parlato? Ho raccontato solo le cose che servivano per difendermi, diciamo così. Per grazia di Dio ho tanti peccati, ma non ho commesso quello più grave. Se avessi collaborato sarei stato, in quel momento stesso, fuori dell’Islam, una parola, una sola, e non sono più musulmano, sono una spia, un traditore. Non tutti hannoresistito. È sentirti uno, fratello, che gli altri sono con te, che ti rende forti a Guantanamo, quello che gli americani non hanno capito. Sono stato in galera anche in Italia e anche lì, certo, in cella ci si aiutava se stavi male. «Ma a Guantanamo è diverso, quando uscivi dalla gabbia per gli interrogatori intonavano una canzone di gioia e di incitamento e quando tornavi e capivano che non avevi mollato, che eri ancora un fratello, un altro canto, che dice benvenuto, benvenuto in Dio. La fede impediva di diventare tutti pazzi o bruti. Nel Corano raccontano che Giuseppe ha passato sette anni come me e tutti i profeti hanno sofferto. Dio ti spiega come difenderti. E poi c’è l’attività fisica. Mi ero fatto una corda con il lenzuolo annodato e saltavo, saltavo, saltavo, sudavo. E dopo ti sentivi bene, vivo, pronto alla pazienza». Gli americani «So distinguere, non sono tutti eguali, non sono tutti quelli dell’epoca di Bush. Ma prima di mandarli a lavorare a Guantanamo tutti, anche i medici, gli infermieri, li portavano a vedere la voragine dove prima c’erano le due torri e gli dicevano: ecco, avrete a che fare con la gente che ha combinato questo. Sì, qualcuno era più carogna, lo capivi, ma dovevano agire sempre con il regolamento, non potevano agire come sentivano. Il gesto che non dimenticherò? Quello non è accaduto a Guantanamo, ma sulla pista di Kandahar: incolonnati legati in attesa di salire sull’aereo, ho sentito, sentito perché ero bendato, un soldato americano che mi toccava su un braccio, due colpi ma piano, mi verrebbe da dire dolcemente, come si fa per rassicurare». L’avvocato «È stato dopo sei anni, sei anni, che ho incontrato l’avvocato, un americano, il primo essere umano che non fossero gli altri prigionieri o le guardie. Erano già iniziati i rilasci, aveva assistito altri fratelli. Lo ricordo il giorno che mi ha portato un dvd e quando l’ho aperto. Il messaggio di mia madre e di mia sorella, registrato in Tunisia. Quando la prima immagine, le prime parole sono partite ho detto: ferma tutto, stop, non ce la faccio. In due anni l’ho incontrato cinque volte. Contro di noi non c’era una causa, un capo di accusa niente. Che ci serviva in fondo un avvocato? Che sarei uscito l’ho saputo leggendo un giornale egiziano, vecchio perché ci davano copie vecchie. C’era scritto che Obama era venuto in Italia, aveva incontrato Berlusconi, che aveva accettato di prendere tre di noi, e che c’era un giudice che aveva una causa aperta contro di me. La cosa più tremenda era che sapevo che sarei uscito di lì ma non sapevo quando: tra un giorno un mese un anno. Ho capito quando sono venute le guardie e mi hanno portato dei jeans e dei vestiti. L’avvocato mi aveva avvertito, guarda che c’è il rischio che ti consegnino alla Tunisia e allora c’era ancora Ben Ali, che per la gente come me, gli islamici, i terroristi, non sprecava certo denaro in prigione, li ammazzava e via, sparivi. Non importa, dovevo uscire. E poi quando è successo ho scoperto che era dura, non potevo gioire perché essere libero voleva dire lasciare i fratelli, la mia vita. E cinque tunisini ancora sono là dentro». Memoria «Guantanamo? Ora? È un sentimento che è entrato in me. Per la vita e per dopo la vita. Ora sono sicuro che questo mondo, questa vita non vale niente, tutto vi è possibile. A Guantanamo pensavo ogni minuto, ogni secondo: sono qui, dentro una trappola, come potrò mai uscire? Sono uscito».