Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  gennaio 28 Sabato calendario

Valduga, spietata è la pietà dell’amore – È nell’amore che trasuda. È nella sua «spietata pietà»

Valduga, spietata è la pietà dell’amore – È nell’amore che trasuda. È nella sua «spietata pietà». È nella sua verità. Ed è forse - più di tutto - nella verità di un verso di Rebora, che le è ben noto («ma dove toglie amor forse s’invera»). In Patrizia Valduga l’amore è nelle midolla di una poesia che urla grida protesta ma sempre si articola in sapienza di gesti e di misure. Questo succede in tutto il suo percorso e torna a succedere - nessuna novità se non nella sostituzione dei distici alle quartine - nella sua ultima sortita che è - con evidente riferimento biblico - il Libro delle Laudi appena pubblicato nella «bianca» Einaudi. Laudi perché il libro va inteso come canto, come elogio, come preghiera. Non voce di morte ma di resurrezione. Un canto che sale dall’abisso della notte oscura a cantare la resistenza del cuore, la resipiscenza sentimentale, la più religiosa promessa, e persino una sorta di palinodia o confutazione non solo del proprio operato ma della propria opera: «Ladra di versi ho fatto il verso ai versi/ per l’amore che non sapevo dare.// Ho fatto versi sempre più perversi/ per uscire da me e riposare». Difficile dire lo strazio e la nera gioia affiorante da queste Laudi che si compongono in trittico, ciascuna anta a esprimere un momento di storia esemplare. La forza figurale che ne viene - il fascino dell’insistenza e dell’iterazione - non tralascia di dire i lacerti di un’infanzia irredenta né sacrifica le schegge invettivanti di una denuncia senza appello: «Il mondo letterario mi fa orrore:/ ormai ci sono so- Ciò che più conta, uno scoslo giornalisti». E qui torna - a li- sone che va letto come un pervello intertestuale - la comples- sonalissimo manifesto e che va sa tessitura di versi che si collo- dunque inteso come sintomaticano - da Alfieri a Foscolo a Se- co percorso di letture. Risultanreni - su un preciso versante do flagrante, ad esempio, il fatpoetico: la «deprecatio tempo- to che l’antologia vada da Guitrum», l’assoluta distanza da un tone a Raboni: Raboni come presente («È troppo miserabi- «terminale»; proprio lui, il poele il presente») malamato o non ta a cui il Libro delle Laudi è deamato affatto. dicato. Raboni presente nell’an- Per meglio comprendere tologia (concepita come una pol’unità del tutto sarà bene leg- esia) con un componimento gere anche l’antologia Poeti in- d’amore di strenua commozio- namorati , che la Valduga ha ne, a cui l’intero Libro delle Lau- pubblicato poco prima delle di sembra essere nato per ri- Laudi nelle edizioni novaresi di sposta. Una risposta - i più bei Interlinea (pp. 96, 10). Un’an- versi - che chiude con un antologia che è un proclama di nuncio aperto e fiducioso, finalbellezza poetica ma che poi - al mente «natalizio»: «Poso la tedi là della qualità dei testi - si sta sopra i tuoi ginocchi…/ Sto presenta come una vera e pro- bene…Ce la faccio, anima capria dichiarazione di «poeti- ra…/ Guarda! Il cielo è sereno… ca». Refrattaria a ogni canone È tutta luce/ la neve sulle cime accademico e libertaria nella dello Schiara!». scelta di crearsene uno ben suo, la Valduga punta su un Cecco Angiolieri saturnino, su un meno consueto Buonaccorso da Montemagno o su un Folengo e un Ruzante meno prevedibili, ma non su Michelangelo perché «si è scambiata per grandezza poetica la rudezza di un geniale dilettante», non Ssu Vittoria Colonna (con lui sacrificata a vantaggio delle pur nobili voci di Chiara Matraini e Gaspara Stampa). Leopardi sì, ma con una riserva decisiva («Considero Leopardi un grande prosatore e pensatore, ma mi pare poeta tutto volontà e niente istinto»). Meglio Vincenzo Monti che gli viene opposto come reagente di una letterarietà tutta mentale (un rovesciamento arduo da condividere). Ma poi - soprattutto - un Novecento tutto scomposto. Niente Gozzano, perché quello che resta dopo le carabattole della nonna «è già tutto in Pascoli». Niente Penna, «perché la sua voce mi sembra assai flebile». Sì Montale, ma una richiesta per lui di giuste proporzioni «tra i due più grandi Rebora e Betocchi». Insomma, se non proprio un terremoto, un sensibile scossone tanto ingiusto quanto salutare.