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 2012  gennaio 28 Sabato calendario

Sulla carrozza di Pintér facce da Oscar – Se si penetra dentro uno dei folgoranti libri, che raccolgono le golose copertine d’un regista ineguagliabile dello sguardo grafico, come Ferenc Pintér, dedicato alla burbanzosa figura-chiave di Maigret, e lo si fa secondo quel vecchio meccanismo del pre-cinema, per cui sfogliando velocemente le pagine sfuggenti tra le dita, come se si rimettessero in movimento dei fotogrammi assopiti, ne scatta fuori una sorta di sobbalzante film di carta, ebbene la straordinaria capacità, inesauribile, di questo pittore dell’ aria e dell’atmosfera (ungherese d’anima, ma nato ad Alassio, nel 1931, da un padre-pittore sfuggito alla rivoluzione!) ci restituisce come una sorta di ur-film, di film originario, compresso e rapsodico, regalato a quest’ epocale personaggio d’ispettore

Sulla carrozza di Pintér facce da Oscar – Se si penetra dentro uno dei folgoranti libri, che raccolgono le golose copertine d’un regista ineguagliabile dello sguardo grafico, come Ferenc Pintér, dedicato alla burbanzosa figura-chiave di Maigret, e lo si fa secondo quel vecchio meccanismo del pre-cinema, per cui sfogliando velocemente le pagine sfuggenti tra le dita, come se si rimettessero in movimento dei fotogrammi assopiti, ne scatta fuori una sorta di sobbalzante film di carta, ebbene la straordinaria capacità, inesauribile, di questo pittore dell’ aria e dell’atmosfera (ungherese d’anima, ma nato ad Alassio, nel 1931, da un padre-pittore sfuggito alla rivoluzione!) ci restituisce come una sorta di ur-film, di film originario, compresso e rapsodico, regalato a quest’ epocale personaggio d’ispettore. E ci fiotta contro, con violenza proustiana, e d’un fiato, un’intiera epoca, ormai sfumata. Attraverso gli odori, anzi, i sentori, talvolta stantii ed asfittici, della vita parigina e della sordida criminalità familiare. Il dolciastro profumo persistente della pipa masticata, nell’enfasi dello svelamento d’intreccio. Il profumo conversevole del calvados, con l’immancabile uovo sodo, stampato sul bancone di zinco, nelle pause di vita. Il tanfo ciancicato delle stanzette claustrofobiche del commissariato del Quai d’Orsay, durante gl’incalzanti interrogatori notturni. Ed il tenero smog, puberale, delle nascenti metropoli invivibili e nebbiose, che consigliano un rapido riparo casalingo presso le metafisiche pantofole della signora Pagnani-Maigret. Appunto, perché tutti questi volumi Mondadori, dal 1961 al ’91 (l’Adelphi, che poi avrebbe apportato il suo repêchage nobilitante di Simenon, era ancora calamitata dalla Mitteleuropa) portano inscritti nel Dna grafico l’effigie inconfondibile dell’interprete-parassita Gino Cervi. Con i suoi borborigmi televisivi, le pause compiaciute, la sua condiscendenza culinaria. Appunto. Come uno chansonnier della pasta (pittorica) all’olio (e bisogna pure vederlo, che le copertine si rifanno a delle grandi tele generatrici, secondo lo stile d’origine d’un maestro della cartellonistica, che si occuperà anche della Facis e della Radiomarelli) Pintér cattura un’aura, racconta un umore, fulmina e condensa uno stile di storia. Santo Alligo, grafico a sua volta e conosciuto (nell’ambito dello Studio Testa, dando vita per esempio all’ippopotamo dei pannolini Lines, per intenderci) ha già dedicato a Ferenc Pintér altre proficue raccolte, dove ha intelligentemente concentrato solo le copertine dei volumi, curati da questo proteiforme narratore per immagini (in questo interminabile e sapientissimo racconto d’un mood d’epoca). Questa volta, dopo Maigret, che pure ritorna anche qui, ed il rosario impressionante di tutti gli Oscar, sino ai primi anni Novanta (per cui è fatale che la nostra conoscenza di Eco, quello economico del Diario Minimo , per dire, oppure di Fowles, Genet, Greene, Lawrence, Pavese, Queneau, tanto per citare a caso, persino di Proust e Bergson, a proposito di materia e memoria, «passi» inevitabilmente e sia come aggregata, incistata - magari anche inconsciamente, subliminalmente proprio attraverso le immaginiintroibo, filtro, di Pintér) ci riserva un’altra primizia. E’ la ventura (sempre più difficile, sempre più virtuosismo, come in una sorta di equilibrismo acrobatico spettacolare) d’un altro esperimento, non meno popolare e sempre della Mondadori, che furono gli Omnibus. Una sorta di «carrozza di tutti» (per citare De Amicis) in cui ci s’imbarcava per viaggi di lettura assai consistenti. Ogni volume, vari gialli, legati ad ispettori sempre più popolari, come Sherlock Holmes, Poirot, Marlowe, Perry Mason e Nero Wolfe-Buazzelli. Certo, anche qui ci sono alcune dominanti e riferimenti attoriali, per titillare il pubblico che ancora si lasciava sedurre dal cinema, basterebbe sfogliare le copertine di una Miss Marple così Margaret Rutherford. Ma Pintér, avendo a che fare con volumi miscellanei, dove non è più il singolo intreccio giallo a poter stimolare la sua fantasia inesausta, e nemmeno poter prendere il sopravvento su altre trame, e mancando talvolta di popolari referenze cinematografiche, è ormai solo, di fronte al personaggio. E deve «pizzicarlo» nei suoi tic, nei suoi atteggiamenti ricorrenti, che si fanno icona, nella sua inconfondibilità caratteriale, raccontandoli attraverso uno stile ogni volta diverso (e qui si va dal hard boiled spregiudicato dei «duri» di Chandler e Chase, alle sottili ironie anglosassone di Conan Doyle e della Christie. Il cui profilo arcigno, di lei, moglie d’un archeologo ed innamorata degli enigmi egizi, si nasconde, come in un gioco metamorfico arcimboldesco, nella sagoma sabbiosa d’una sfinge sironiana. O meglio, Ed Rucha). Perché è impressionante, in questa sorta di disegnata «Variazione Goldberg» di figure sempre ricorrenti, ma ogni volta variate (sono del resto gli anni strutturalisti di Differenza e ripetizione di Derrida e degli esperimenti francesi di combinatorietà narrativa, alla Saporta o Perec) rendersi conto della vertiginosa cultura-serbatoio artistico, che Pintér manipola e rimetabolizza e brucia, quasi picassianamente (l’arte come furto e d’après). Con somma sprezzatura manierista e divertita. Soprattutto dalla parte della pop art. Inglese, con David Hockney, Hamilton e Allen Jones. O americana (il labbrone sguaiato e seduttivo alla Wesselman, di Pelle di spia , con la sigaretta fleminghiana, puntata contro di noi, che si tramuta in segreto obiettivo fotografico). Più Lichtenstein, comunque, con il suo retinato puntinista, che non il fin troppo grafico e scontato Warhol. Meglio di tutti, però, Rauschenberg, con l’immagine inchiostrata che par sfuggir via: la copertina come il vetro inaffidabile d’una perenne underground dell’esistenza. Ma «dentro», nella polpa di memoria visiva, ci sono anche Matisse, Vuillard, persino le vetrate gotiche, per P.D. James o il decò croceristico di Cassandre. E l’ossessione della suola di scarpe, bucate sulla scrivania, in primo piano: come una firma psicoanalitica di memoria autobiografica, d’una vita felice e difficile.