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 2012  gennaio 28 Sabato calendario

L’anti-visionaria alla prova dell’euro – Sulla scrivania di Angela Merkel campeggia un ritratto di Caterina II, la grande zarina di origine tedesca che intratteneva conversazioni epistolari con Voltaire

L’anti-visionaria alla prova dell’euro – Sulla scrivania di Angela Merkel campeggia un ritratto di Caterina II, la grande zarina di origine tedesca che intratteneva conversazioni epistolari con Voltaire . Ogni tanto anche la cancelliera si prende una pausa dagli sherpa economici e dai consiglieri politici e si affida alle idee. Allora riunisce un po’ di scrittori e di studiosi delle materie più disparate e ascolta. L’estate scorsa, durante una di queste cene, le chiesero fino a quando avrebbe continuato a chiedere sacrifici alla Grecia. «Finché le occhiaie di Papandreou non saranno più lunghe delle mie», replicò. Incoronata cinque volte da Forbes «donna più potente del mondo», la Merkel è consapevole che dopo una carriera verticale che l’ha portata ad essere nel 2005 prima cancelliera donna ma anche la più giovane della storia tedesca, il vero banco di prova sarà la crisi dell’euro. È su di essa che si misurerà se l’ex pupilla di Helmut Kohl è degna di entrare con aggettivi lusinghieri nei libri di storia. Ma dal destino della moneta unica dipenderà anche se la Germania avrà retto alla difficile prova della leadership europea. Un ruolo che suscita inevitabilmente diffidenze nel resto del Continente. Già ai tempi della Riunificazione Margaret Thatcher sentenziò: «abbiamo battuto la Germania due volte; non vorremmo essere costretti a batterla una terza». Anche i costosi tentennamenti della cancelliera sulla attuale crisi dei debiti sono stati bollati dalla stampa britannica come Terza guerra mondiale. E il nuovo Patto di stabilità improntato al germanico rigore dei conti fa emergere diffusi timori che l’Europa strangoli il proprio potenziale di crescita. Sotto sotto cova anche la competizione con un modello di successo ma disprezzato dagli anglosassoni come la tedesca «economia sociale di mercato» di cui la Merkel va fiera. E che ha dimostrato, però, di essere profondamente dipendente dal destino dell’euro. Il 40 per cento dell’export tedesco è verso l’Eurozona. E quando i tanto vituperati «Pigs», i Paesi che avevano i conti pubblici in disordine, Italia compresa, rimangono ora insabbiati dall’austerità, anche la «Cina d’Europa» è costretta a frenare, come evidenzia il rallentamento previsto per l’anno in corso. È ancora presto per dire se con i diktat rigoristi si arriverà alla «germanizzazione dell’Europa» tanto temuta da Thomas Mann. Per l’Italia, però, dopo la progressiva marginalizzazione in Europa degli anni del berlusconismo, il ritorno ai tavoli che contano è passato indubbiamente attraverso il placet della cancelliera. Anzitutto per i due «super Mario», il governatore della Bce Draghi e il presidente del Consiglio Monti. Nel 1990 Kohl scoprì quella che poi soprannominò «la ragazza». Era una 36-enne ricercatrice di fisica cresciuta dietro la Cortina di ferro che indossava enormi gonne sopra i sandali ed esibiva un’improbabile capigliatura da cavaliere medievale. Totalmente digiuna di politica, durante la Riunificazione aveva aderito a un minuscolo partito che confluì poi nella Cdu/Csu. Il cancelliere la catapultò in pochi mesi ai vertici della politica federale. Lei dimostrò subito una grande capacità tattica e una mostruosa velocità di apprendimento. Figlia di un pastore protestante, bruciò le tappe approfittando della tendenza di un partito cattolico e stradominato dagli uomini a sottovalutarla. Sulla via del trionfo spazzò via anche il mentore, chiedendo nel 2000 al partito triturato dallo scandalò dei fondi neri di liberarsi del «Padre della Riunificazione». Lo fece con un colpo da maestro, scrivendo una lettera a un quotidiano che scatenò una guerra di sospetti tra Kohl e quello che tutti consideravano il suo delfino: Wolfgang Schäuble. Una battaglia che affossò entrambi e rafforzò la Merkel. Lei dovette aspettare altri cinque anni prima di conquistare la poltrona di Adenauer. Ma a 51 anni, nel 2005 si è messa alla guida di una nazione nella piena consapevolezza che con l’ingresso nell’euro la Germania ha perso l’unico simbolo di potere che le sia stato concesso dopo in nazismo: il marco. Un Paese, inoltre, immerso negli anni recenti in un processo complicato e doloroso, quello dell’assorbimento della Germania est in bancarotta, costato nei primi 20 anni oltre 1.500 miliardi di euro. L’equivalente della ricchezza che l’Italia produce in un anno. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che tra i tedeschi emerga una certa esasperazione, quando si tratta di aprire di nuovo il portafoglio per salvare la Grecia o il Portogallo. Uno stato d’animo diffuso che aggrava la sfiancante titubanza della Merkel sui dossier europei. È anche questa tendenza a far prevalere la ragione e gli umori dei tedeschi sugli slanci visionari e sulle fughe in avanti solitarie «à la Kohl» che imprime alla politica della cancelliera una dantesca, micidiale «veduta corta». Difficile dire se sia anche lo strascico di un problema motorio alle gambe che l’ha costretta per anni, da bambina, a programmarsi in anticipo anche i percorsi più banali. Ma quello che si sa, che lei stessa ha dichiarato, è che l’esperienza nella dittatura le ha insegnato a diffidare di tutti. Un dato che contribuisce alla sua proverbiale cautela e accompagna la svolta pragmatica impressa alla politica europea. Un riflesso positivo si coglie nell’atteggiamento sulla Bce e le sue operazioni straordinarie che i tedeschi più ortodossi continuano a bollare indignati come una violazione dei Trattati. La cancelliera, invece, è ben consapevole che la Bce continua ad essere l’unico baluardo contro il precipitare della crisi. E quando il candidato alla presidenza tedesco, Axel Weber, si è improvvisamente ritirato dalla corsa, Merkel ha dato il suo benestare all’italiano Mario Draghi. Una scelta non dogmatica. Pragmatica, appunto. Resta il sospetto sollevato dell’ex ministro degli Esteri, Joschka Fischer, che la accusò di trasformare la Ue in una cornice per rafforzare gli interessi particolaristici della Germania e di dimenticare l’Europa come fine in sé, come lo era per Kohl e un’intera generazione di politici cresciuti sulle macerie belliche e consapevoli che è un processo e non un dato di fatto. Ma intanto l’arrivo di Monti spezza l’asse con Nicolas Sarkozy e riporta la politica europea nell’alveo della Ue. E i primi passi del presidente del Consiglio mostrano la consapevolezza di essere alla guida di un Paese fondatore, oltre che di una grande economia. In crisi, ma salvabile. Eppure, anche il presidente del Consiglio ha ammesso che la sua missione è «di rendere gli italiani più simili ai tedeschi». Un altro inchino verso Berlino. L’ultimo si spera, nella faticosa «reconquista» di una dignità europea.