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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

LA PRIMA VOLTA DI ROMEO E GIULIETTA

Quasi fosse una imprecisata e biblica «notte dei tempi», versione moderna della cacciata di Adamo ed Eva, la data della prima rappresentazione di Romeo e Giulietta di William Shakespeare è avvolta nelle nebbie di Londra. Come d’altronde molte delle informazioni che riguardano la vita, la morte e le opere di Shakespeare (nel film Anonymous di Roland Emmerich viene presentato addirittura come un impostore). Una delle date plausibili è il 30 gennaio 1595, quando la compagnia di fiducia del bardo — la Lord Chamberlain’s Men — avrebbe messo in scena le infauste vicende degli amanti di Verona. I teatri indiziati sono due: The Curtain e The Theatre. Strutture molto in voga all’epoca (il ben più celebre Globe verrà costruito solo nel 1599). L’autore era di sicuro richiamo, la compagnia collaudata, la storia ben nota. Ispirata al The tragicall historye of Romeus and Juliet di Arthur Brooke, racconta di Giulietta Capuleti e Romeo Montecchi che appartengono a due famiglie rivali di Verona; lei sta per sposarsi con Paride, poi incontra Romeo e tutti i piani vanno all’aria. I due si sposano in segreto con la benedizione di frate Lorenzo e si separano quando il ragazzo viene bandito dalla città. Giulietta si finge morta pur di ribellarsi al volere dei suoi familiari; ignaro del trucco Romeo si toglie la vita, seguito da Giulietta stessa.
Come andò la prima volta di Romeo e Giulietta non ci è dato saperlo. Quello che è certo, comunque, è che l’amore tra un ragazzo e una ragazza, da quel giorno, che fosse il 30 gennaio 1595 o un altro giorno, non sarà più lo stesso.
Prima dell’ondata di peste e di puritanesimo che costringerà i teatri cittadini a chiudere per oltraggio alla morale, la scena londinese di fine Cinquecento è animata da una sequenza impressionante di spettacoli (tutti i giorni tranne la domenica). Il pubblico è composto da esponenti dell’aristocrazia, studenti universitari, popolani, amanti che approfittano della promiscuità garantita dalle logge in un contesto che alla raffinata liturgia teatrale contrappone schiamazzi e partecipazione calorosa. Di norma gli spettacoli vengono pubblicizzati da una didascalia all’ingresso del teatro e da uno stendardo: nero per le tragedie, bianco per le commedie e rosso per le rappresentazioni storiche. Nessun colore previsto per l’amore. E forse nel caso di Giulietta Capuleti e Romeo Montecchi sarebbe stato davvero più opportuno. In fondo, di tragedia si tratta.
Alla vigilia del debutto, la trama della nuova opera di Shakespeare non è un mistero per nessuno, nonostante il testo scritto non circoli ancora (nel 1597 appare una versione basata sugli appunti degli attori generalmente considerata scadente dalla critica). Gli spoiler, dunque, non hanno ragione di esistere, né più né meno come per la trasposizione cinematografica di una saga di cui si sono letti tutti i libri. Come se non bastasse, l’autore spiffera già tutto nel prologo. Cosa resta della trepida anticipazione e dell’onesto coinvolgimento quando tutto è stato già dato?
In un mondo estraneo al fenomeno delle celebrità, neanche la scelta degli attori può giustificare le file al botteghino: i divi, se ci sono, sono già vecchi e poco credibili nel ruolo dell’imberbe Romeo (come nelle serie televisive in cui attori alla vigilia dei trent’anni vengono chiamati a recitare una gioventù che non è più la loro); le donne non possono stare sul palco a meno che non siano prostitute ed ecco che Giulietta viene interpretata da un ragazzo con le corde vocali ancora bianche.
Non molto, per scatenare l’ardore delle masse. Dov’è allora che la prima di Romeo e Giulietta può fare la differenza? In tutto quello che il pubblico non sa ancora: per esempio nel colpo di scena di una morte che arriva prima del previsto. Per circa un’ora, gli attori di Shakespeare intrattengono il pubblico illudendolo che si possa trattare l’argomento nei toni ragionevoli di una commedia, tra un ballo in maschera e un’appassionata dichiarazione al balcone, ed è solo quando Mercuzio soccombe per mano di un Capuleti nel tentativo di sottrarre l’amico Romeo alle ire della famiglia rivale che il pubblico realizza di assistere a una tragedia. Lì, per la prima volta, lo spettatore viene tradito nel suo legittimo desiderio di intrattenimento come consolazione e tenta di colmare il baratro che lo separa dalla finzione (un baratro anche fisico) mettendosi a disposizione della storia, attraversato dallo stesso impulso che governa le spettatrici delle telenovelas quando cercano di suggerire una mossa al protagonista per impedire che si consumi il dramma («Ma qualcuno deve dirglielo! Qualcuno deve pur dirglielo che non è morta!»).
Gli spettatori, ormai preparati all’epilogo tragico dal crescendo di melodramma, possono iniziare a ordinare le idee. Innanzitutto Romeo e Giulietta non sono rappresentativi del contesto: nessuno si sposa a quattordici anni, neanche nelle famiglie benestanti. All’epoca di Elisabetta l’età media del matrimonio si aggira intorno ai vent’anni; Shakespeare abbassa volutamente l’età dei suoi protagonisti non solo per spingere il pubblico a nutrire tenerezza nei loro confronti, ma anche per sottolineare l’eccezionalità della loro condizione, evitando che la storia risulti «troppo vicina a casa». La maggior parte del pubblico non ha nulla da ridire contro l’istituzione del matrimonio obbligato — non necessariamente estraneo all’amore — né tantomeno è turbata dalla rappresentazione di un mondo patriarcale o dall’esibizione della morte, che è un’esperienza ordinaria sia nella finzione (centinaia gli eroi tragici che sono morti e moriranno su quello stesso palco) che nella vita reale (centinaia le teste dei traditori appese sui ponti della città).
Il vero problema non è neanche che si possa amare qualcuno in quel modo e a quell’età, ma l’inclinazione all’autodistruzione di Romeo e Giulietta che fanno di tutto per perdere il controllo di sé. Un comportamento avulso rispetto al mondo in cui lo spettatore vive.
Per questo motivo, a fine rappresentazione, qualcuno può aver concluso che in fondo i ragazzini se l’erano cercata, che la storia era inverosimile e si adattava a gente di altro temperamento (fino a prova contraria, Romeo e Giulietta erano di Verona). Altri avranno iniziato a flirtare con un finale alternativo; non a caso a partire da metà Seicento iniziano a circolare testi in cui i protagonisti non muoiono e i Capuleti e i Montecchi si riappacificano. Altri ancora avranno dato luogo a congetture: esistono davvero medicinali in grado di procurare una morte apparente? I due amanti, da buoni suicidi, andranno all’Inferno? Ma gli spettatori più importanti, ai fini del successo di Romeo e Giulietta, sono quelli convinti di aver appena assistito a una grande storia d’amore.
Nella Londra di fine Cinquecento, le sorti di un’opera non venivano di certo decise la sera del debutto. Tuttavia, l’esordio teatrale della tragedia di Shakespeare ha prodotto qualcosa che ancora non c’era: una timida avanguardia pronta a difenderne il mito. Gli adolescenti che nel 1595 hanno assistito alla prima volta di Romeo e Giulietta sono diventati complici di un’illusione che depisterà milioni di coetanei nei secoli a venire, un’illusione che nutrirà letteratura, musica — come Romeo had Juliet di Lou Reed, dove il bardo di New York ripropone l’opera di Shakespeare in un contesto meticcio e tossico — e cinema, soprattutto Hollywood, come nel film barocco di Baz Luhrmann con Leonardo DiCaprio e Claire Danes. L’illusione, a partire da quel momento, che ci sia una stretta contiguità tra la morte e l’amore. Che l’intensità del sentimento è tanto più reale quanto più disciplinata dal sacrificio. Un’idea seduttiva, semplice e nondimeno terribile.
E pensare che Shakespeare quegli adolescenti forse voleva solo metterli in guardia: non trasgredire le regole, non oltrepassare i confini, sopravvivi.
Claudia Durastanti