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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

4 articoli – FREUD+HOCKNEY+HIRST: NOVECENTO PER TRE - Sarà forse un caso che, senza un motivo particolare (anniversario o altro) Londra si ritrovi in quasi contemporanea, sia pure solo per qualche giorno dal 4 al 9 aprile, a celebrare tre personaggi come Lucian Freud, David Hockney, Damien Hirst (personaggi e non artisti perché mentre l’ispirazione di Freud e Hockney è una certezza, su quella di Hirst resta ancora qualche dubbio)? Certamente no

4 articoli – FREUD+HOCKNEY+HIRST: NOVECENTO PER TRE - Sarà forse un caso che, senza un motivo particolare (anniversario o altro) Londra si ritrovi in quasi contemporanea, sia pure solo per qualche giorno dal 4 al 9 aprile, a celebrare tre personaggi come Lucian Freud, David Hockney, Damien Hirst (personaggi e non artisti perché mentre l’ispirazione di Freud e Hockney è una certezza, su quella di Hirst resta ancora qualche dubbio)? Certamente no. La Londra che si avvia alle Olimpiadi di fine luglio con l’ansia di mostrarsi cambiata li ha scelti proprio perché (ognuno a suo modo) hanno saputo «aggiornare» il concetto stesso di modernità, decretando (ognuno a suo modo) la fine del Novecento. Prendiamo Freud (al «suo» museo londinese si è oltretutto appena inaugurata una mostra delle opere realizzate dalla figlia Jane che lo ha seguito nei giorni che precedettero la morte, lo scorso 21 luglio). Modernissimi (al di là della scelta di ispirarsi a Bacon o di recuperare grandi classici come Hals, Watteau o Cézanne) sono certo il suo Doppio ritratto (cane compreso) o il suo Interno a Paddington. Ma ancora più moderna è stata la sua scelta di isolamento, sapendo benissimo che (al di là delle proprie paure) quella assenza avrebbe finito per alimentare fama, mercato e prezzi. Anche per questo quei suoi corpi sfatti, esibiti senza ritegno e senza pietà avrebbero raggiunto cifre stratosferiche (22 milioni di euro nel 2008 per Benefits supervisor sleeping). E d’altra parte (assai modernamente o meglio assai concretamente) Freud si è sempre orientato verso soggetti assai abbienti (a cominciare dalla Regina Elisabetta), senza dimenticarsi nemmeno le top model, purché celeberrime e maudit come Kate Moss. Altrettanto moderno è stato il percorso di Hockney (non a caso ritratto dallo stesso Freud nel 2003), partendo dalla sua idea di «realismo contemporaneo» (da Pearlblossom highway agli interni domestici). Ma ancora più anticipatrice (in un artista ultrasettantenne) è stata l’impresa di sposare l’impressionismo con le nuove tecnologie, dall’iPad all’iPhone, attualizzando con il digitale un genere ormai sfiancato come quello delle nature morte con vasi di fiori. E così il più giovane dei tre, Hirst, quello all’apparenza più rivoluzionario con i suoi squali in formaldeide, con i suoi teschi trasformati in gioielli e (soprattutto) con la sua idea di arte come mercato libero e senza limiti e senza prezzo (13 milioni di euro nel 2008 per un suo vitello), finisce per sembrare adesso il meno rivoluzionario di tutti, in qualche modo il più superato. Stefano Bucci LE RUGHE COME MAPPA DELL’ANIMA - Quando Lucian Freud si accordò con la Regina d’Inghilterra per un ritratto di Sua Maestà in persona, pare che Elisabetta abbia chiesto all’artista di non essere impietoso. Sua Maestà ignorava di aver appena tentato di manomettere l’istinto di uno dei pittori meno corruttibili del XX secolo. Freud nelle sue opere era stato sempre e solo impietoso, almeno per l’accezione che dà la moltitudine a questa parola, nobili compresi: una specie di sottrazione visiva della dignità. Non era questo il punto, perché Freud in verità fu l’artista maggiormente pietoso che ci fosse in circolazione e la sua pietas stava in quei corpi messi a nudo senza artifici, scarnificati, segnati dall’intimità. E quello era il destino che sarebbe toccato a Elisabetta sovrana d’Inghilterra se avesse continuato con l’intento di farsi ritrarre dall’artista. Continuò. E il risultato fu di vedersi come fosse sul serio, un volto di carta straccia, pallido. Intimidito. Lucian Freud, nipote di quel Sigmund padre della psicoanalisi, aveva rivelato l’anima di Sua Maestà. Una donna che assomigliava a una nonnina spaurita, con una corona in aggiunta sulla testa. Quel pittore nato in Germania ma naturalizzato inglese aveva ribaltato le gerarchie di una nazione con quattro pennelli e sei noci di colore. Aveva spogliato la Regina Elisabetta come prima era riuscito a fare con tutti gli uomini, le donne, le modelle, se stesso, gli animali che aveva fermato su tela. Senza indulgenze. Denudare gli umani dagli orpelli era stata la missione di una vita, esattamente come era accaduto qualche anno prima a uno scrittore che non aveva fatto sconti alla realtà che intendeva narrare: Ernest Hemingway. Lo scrittore americano toglieva aggettivi e non inventava quasi mai, Freud strappava le pose e non abbelliva quasi mai. Cosa rimaneva? L’esistenza com’è, disse Hemingway riferendosi ai suoi libri. Il pittore non rispose mai a questa domanda finché un critico insistette e gli chiese una volta per tutte cosa volesse suscitare attraverso i suoi dipinti. Lui rispose che era accettata qualsiasi reazione, tranne l’impassibilità. La vita di Lucian Freud ha attraversato il secolo scorso e un pezzetto di questo, dal 1922 al 2011 dipinse un numero calcolato di opere (tra cui quella a Kate Moss e all’amico Francis Bacon), in ognuna di queste non c’è una traccia di avvenimenti storici, e qui sta il divario con intellettuali alla stregua di Hemingway. A Freud prima di tutto interessava il nucleo degli uomini, e come questo si riflettesse sulla carne. Le rughe come mappa dell’anima. E poi voleva lo scambio con lo spettatore. In alcuni dei suoi dipinti scelse di farci entrare i ferri del mestiere, lasciava qualche tavolozza nel campo visivo, un dettaglio di cavalletto, lui stesso. Proprio come se questo aiutasse a mettere in gioco anche la sua intimità. Era un uomo taciturno e schivo, attraverso la tela riusciva a darsi un’eccezione dialogando con chi avrebbe guardato la sua opera. In certi dipinti si mette talmente in gioco da abbattere le separazioni con il mondo esterno, sfidando l’occhio che osserva: succede in un autoritratto, lui nudo come un verme con in mano la tavolozza e un pennello, le scarpe ai piedi. Allo stesso modo si comportava un altro scrittore, W. Somerset Maugham, che poteva cominciare un romanzo in qualità di se stesso, autore, per poi lasciare la parola ai suoi personaggi. Una storia nella storia. Nel caso di Freud e di Maugham non è trucco, ma onestà. È per questa lealtà artistica che la Regina Elisabetta si fidò. Ed è curioso immaginarla che posa di persona, per niente sfrontata, davanti a questo vecchio pittore di poche parole. Curvo e scalfito, suo coetaneo. Lei si siede e lui comincia, Maestà non si muova per favore. E lei davvero non si muove. Sa di offrire il corpo di una Nazione a chi lo renderà nudo, per la prima volta autentico. Marco Missiroli L’IMPRESSIONISTA CONVERTITO ALL’iPHONE - da qualche anno vive a Bridlington, sonnolenta e remota cittadina costiera dello Yorkshire. Per lui, è il paradiso. Non tanto perché sia nato proprio da quelle parti, a Bradford per l’esattezza. Non tanto perché si senta a casa in quei paesaggi. Quanto perché, eccetto quei paesaggi, lì niente lo può distrarre. Se per caso decide di sistemarsi col cavalletto sul ciglio della strada, il massimo che può capitargli è la scena proposta nel 2009 in un documentario della BBC. Vi si vede un automobilista fermarsi, affacciarsi dal finestrino e gridare: «Ho un pub non lontano da qui che avrebbe bisogno di qualche decorazione. Magari se ne potrebbe occupare dopo che ha terminato quel quadro». Perché è così che stanno le cose: malgrado sia il più serio tra gli artisti più popolari al mondo, come lo definì tempo fa il direttore di un importante museo americano, nella sua Bridlington, a quattro ore di treno da Londra, David Hockney è soltanto un settuagenario quanto arzillo pittore affetto da qualche eccentrica fissazione quale, per esempio, quella di indossare sempre calzini di colore diverso. Nei turbinosi anni Sessanta, molto prima di tornare ai suoi luoghi d’origine, Hockney visse lungamente a Los Angeles. In un certo senso anche quel soggiorno in terra d’America fu un ritorno a casa. «Sono cresciuto a Bradford e Hollywood» amava ripetere all’epoca, alludendo all’importanza che hanno rivestito nella sua formazione i film americani. Non meno importanti furono le piscine, immancabili nelle ville californiane. Hockney ne ha dipinte parecchie. Particolarmente celebre quella che mostra un trampolino in primo piano e, poco più oltre, la calma distesa dell’acqua infranta da una persona che si è appena tuffata. È un quadro di sadica ironia poiché condanna lo spettatore a una curiosità insoddisfatta. Chi era il tuffatore e che tipo di corpo aveva? Era un corpo di donna o di uomo? Giovane o vecchio? Magro o grasso? Il lato ironico di questo piccolo atto di sadismo è che il pittore sembrerebbe avere indugiato troppo. Partito con l’intenzione di dipingere un tuffatore o forse il tuffo, il pittore non è stato abbastanza lesto da cogliere né l’uno né l’altro e si è così ritrovato col modello inghiottito dall’acqua, e null’altro da dipingere se non gli spruzzi e il trampolino vuoto. Per quanto, fissare su una tela la turbolenza improvvisa di una materia già di per sé instabile e iridescente come l’acqua non è impresa da poco. E infatti, spiegando le ragioni del suo interesse per le piscine, Hockney ha scritto che: «Nulla cambia forma più dell’acqua di una piscina». È evidente che la piscina costituisce soltanto un fortunato pretesto. Ciò che all’artista davvero preme è il cambiamento, non la materia in sé. Del resto, per un pittore, il più magico e irresistibile dei problemi è da sempre come fissare in immagine un soggetto mutevole. Non a caso, pur senza mai smettere di dipingere, Hockney non hai disdegnato la fotografia né le tante altre opportunità offerte dalla tecnologia. Ancora oggi, nel suo paradisiaco Yorkshire, passa dal dipingere paesaggi all’aria aperta, come un vecchio impressionista, al disegnare fiori con l’iPhone da inviare agli amici. Hockney è convinto che pure i grandi artisti del passato ricorressero all’ausilio di lenti e specchi per ottenere un’accuratezza di rappresentazione altrimenti impossibile. Illustrò e dimostrò questa sua teoria in un volume, Il segreto svelato, divenuto oggetto di accese contestazioni, perché in molti trovarono scandalosamente inconcepibile che maestri come Leonardo o Caravaggio ricalcassero immagini proiettate. Ma non c’è scandalo alcuno. «La sfida dell’artista è di aiutarci a vedere di più» e nessun mezzo è scandaloso se adoperato col fine di cogliere il cambiamento, la vita ritratta mentre è impegnata a vivere. Tommaso Pincio LO SPECULATORE CHE INVENTO’ IL MERCATO - Ne La carta e il territorio di Houellbecq il pittore Jed è alle prese con un quadro che non riuscirà mai a portare a termine: Damien Hirst e Jeff Koons si spartiscono il mercato dell’arte. In realtà i due non solo si sono spartiti il mercato dell’arte, ma l’hanno creato quel mercato, portandolo così vicino a un sofisticato paradosso che forse è il loro miglior risultato in termini di arte concettuale. È il 2008 quando Hirst annuncia che non avrebbe più dipinto spot painting, i suoi celebri quadri a pallini (benché non fosse lui a dipingerli ma una manovalanza), poi con un azzardo a metà tra lo speculatore finanziario e il punk ribelle (in fondo, le due anime dell’essere british) fa una mossa che non ha precedenti: aggira le gallerie e mette direttamente all’asta da Sotheby’s la sua opera completa con un incasso di quasi 200 milioni di dollari. Lo speculatore finanziario può ritenersi soddisfatto, ma l’anima punk ha bisogno di contraddizioni: aveva detto che non avrebbe più dipinto spot painting? Ecco un’ottima ragione per rifarli. Gli spot painting sono il soggetto ideale per la produzione seriale di opere d’arte. In un’epoca deprimente di crisi globale, la miriade di pallini colorati che rimbalzano tra New York, Londra, Parigi e Hong Kong (Hirst nel 2012 ha 11 mostre da Gagosian e la sua prima retrospettiva inglese alla Tate Gallery) ridefiniscono l’estetica di un’Ikea da ricchi e riflettono l’idea di arte contemporanea come microcosmo a sé, una specie di arca di Noè che può mettere in salvo degli animali in via di estinzione: i contanti. L’opera d’arte non solo è un bene di lusso, ma un bene di lusso innocuo. Arredamento da yacht, per parafrasare il collezionista messicano César Cervantes: «È più facile avere dieci Hirst che dieci yacht, a parte il fatto che il tuo yacht diventa più interessante se dentro c’è un Hirst». Ma Hirst non accetta di ridurre la sua arte a tappezzeria e ci mette in guardia sulla possibilità che potremmo provare dell’autentico disagio di fronte ai suoi pallini. «Superficialmente», dice, «possono sembrare dei dipinti allegri, ma c’è questa inquietudine di sottofondo. Su cosa ti concentri: sulla griglia, sui singoli pallini o sul dipinto nella sua interezza?». Un dilemma che in effetti fa svanire l’euforia e ti destabilizza nel profondo. Come molti artisti che hanno ottenuto un successo economico, anche Hirst ha il vezzo di rivendicare il suo passato di miseria. La retorica di «quello che ce l’ha fatta» è una parabola chiusa e autosufficiente, in cui non è significativo né il come si è arrivati, né a cosa esattamente si sia arrivati. A chi l’accusa di aver gonfiato a dismisura il mercato dell’arte, Hirst risponde che l’arte è più importante del denaro. Ma cosa sia l’arte resta diligentemente fuori dall’indagine. Come accade per i beni di Veblen, (quelle merci in cui la domanda, invece di diminuire, cresce all’aumentare del loro costo) così per le opere di Hirst, più lui le fa salire di prezzo, più cresce il desiderio di averne una. E più cresce il desiderio di possedere un Hirst, più cresce la sua fama di artista. L’arte è più importante del denaro, d’accordo, ma il denaro determina cosa è arte. Nonché quali siano le tematiche più redditizie: morte, scienza, religione. Hirst pesca nel prontuario dei grandi temi scegliendo sempre titoli al tempo stesso seducenti e didascalici per ridurre al minimo lo sforzo interpretativo e far sentire lo spettatore coinvolto nella più alta forma di consapevolezza contemporanea: la suggestione. Emblematica la sua opera più famosa, lo squalo sotto formaldeide: The Physical Impossibility of the Death in the Mind of Someone Living («L’impossibilità fisica della morte nella mente di chi vive»). Quell’induzione a un’impossibilità di esperienza, qualunque essa sia, è la vera forza di Hirst. Veronica Raimo