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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

LE 5 PAGINE MEMORABILI DELLA STORIA DELLA LETTERATURA: INTERNO GIORNO

Le descrizioni, odiata zavorra di romanzi, era permesso saltarle. Perfino negli elaborati scolastici non erano tenute in grande considerazione, giudicate riempitivo senza valore, scappatoia per furbi, buone al massimo per allungare di qualche riga un testo troppo striminzito. Tradizionalmente le più noiose in assoluto riguardavano gli interni, le stanze, le cucine, le cantine, il giro scale, i tavoli, le tende, la luce, gli oggetti sparsi, l’ordine o il disordine: mortale, insomma, per cui si saltavano le pagine in cerca dei fatti, delle parole, dei colpi di scena che certo non potevano venire né dai mobili né dalla luce variamente soffusa — di candela, di lanterna, di lampadina, lampadario o anche di finestra — che illuminava questi interni.
Fino a quando non è capitato di leggere descrizioni senza nemmeno notare che tali fossero, stanze, mobili, oggetti, vestiti necessari alla trama, lettera viva come i personaggi che li usano, che li toccano, che li indossano, sangue e muscoli del romanzo senza i quali sarebbe risultato pallido e insapore. Descrizioni di interni che ci siamo figurati, ogni lettore a modo suo, ambienti e case nelle quali siamo entrati, che ci sono diventati familiari, un poco nostri, che hanno contribuito a illustrarci i personaggi, a inquadrarli meglio, a conoscere le loro storie, i loro gusti.
Lev Tolstoj,
Guerra e pace - Anna Karenina
Tolstoj è ovviamente il maestro di queste descrizioni necessarie che mai verrebbe in mente di saltare. In Guerra e pace, in Anna Karenina egli descrive esterni di strade e campi ed interni di case e palazzi — interni soprattutto, visto il clima, probabilmente — con la stessa, identica, fulminante ed amorosa precisione con la quale descrive i caratteri, gli stati d’animo, i pensieri, le espressioni del viso e del corpo dei suoi personaggi, che si tratti di uomini, di donne, di bambini, di principi o vetturini, di cani o cavalli. Raccontando di famiglie, è ovvio che debba raccontare anche degli ambienti nei quali si muovono, dove mangiano, parlano, lavorano, litigano, piangono, dormono, sfondo inseparabile dalle loro vicende. E il meglio di sé egli forse lo dà nelle descrizioni dei luoghi di lusso, luminosi, luccicanti, eleganti, ben riscaldati, benché non gli fossero certamente estranei quelli poveri.
Henry James,
Le spoglie di Poynton
Per Henry James, a sua volta grande narratore di interni, stanze, mobili, soprammobili, quadri e tappezzerie sono addirittura materiale da romanzo, senza i quali non ci sarebbe storia. Ne Le spoglie di Poynton, dove le spoglie stanno appunto per gli arredi che madre e figlio (più futura nuora) si contendono durissimamente, si realizza l’orribile incantesimo — a molti purtroppo ben noto — per cui degli oggetti di suprema bellezza e armonia, collezionati per una vita con passione, dividono una famiglia, avvelenano e interrompono i più solidi rapporti d’affetto, e non per il danaro che se ne potrebbe ricavare vendendoli bensì, ben più perversamente, per il loro semplice possesso.
Gli arredi diventano, insomma, campo di battaglia tra Mrs. Gereth, che ad essi, assieme al marito defunto, ha dedicato l’esistenza, e suo figlio Owen, bravo ragazzo non troppo brillante in procinto di sposare Mona, sua predominante fidanzata priva di gusto. Più precisamente, si tratta di una guerra contro Mona, per interposti secretaire, arazzi, ritratti, tavoli, cassettoni, cassapanche e seggioline, che a nessun costo la signora vuole cedere alla futura nuora un po’ ignorante, un po’ volgare. Scrive Henry James a proposito di Mrs. Gereth: «Ciò che temeva è che avrebbero trascurato i suoi oggetti, ignorati, abbandonati in mano a rozzi domestici (non c’era un oggetto tra tutti che non dovesse essere toccato con suprema venerazione), e in molti casi avrebbero probabilmente cercato di sostituirli con pezzi che rispondessero a qualche moderno criterio del "comodo". Soprattutto, con occhi dilatati, prevedeva le orribili cose che avrebbero inevitabilmente mischiato con quelli: le minuscole mensole, e i vasi rosa, le spazzature di empori, le fotografie di famiglia e i testi miniati, "l’arte per famiglie" e la devozione per famiglie della mostruosa casa di Mona». Odio, insomma, allo stato puro, battaglia senza esclusione di colpi dove sono i mobili, gli arredi, gli oggetti a dover stabilire, con la loro qualità, chi è migliore, chi è più giusto, chi è più meritevole.
Honoré de Balzac,
La Maison du chat-qui-pelote
Altro grande arredatore di stanze è, ovviamente, Balzac. Nel suo racconto La Maison du chat-qui-pelote, uno dei suoi più antichi, tradotto nelle varie versioni italiane per lo più come «Al gatto che gioca a pelota», egli dipinge con accuratezza l’interno del negozio di stoffe dove, in dedizione e devozione, lavorano monsieur e madame Guillaume assieme alle due figlie, Virginie — brutta — e Augustine — bella — e i due commessi, aspiranti fidanzati nonché aspiranti soci. E il termine dipingere non è usato a caso in quanto Balzac davvero pittura il quadro di una realtà commerciale austera, laboriosa, sapiente e calcolatrice, e il bancone, le balle di stoffa, i cartoni numerati, le forbici, il metro, i ferri per marcare i tessuti, la poltrona rivestita di marocchino consunto, i vecchi sgabelli, la scrivania doppia e la cassa che arredano la bottega perfettamente interpretano lo spirito della famiglia Guillaume. Quando Theodore, pittore aristocratico innamorato di Augustine, si apposta fuori per cercare di incrociare la sua bella, quel che gli appare attraverso la piccola finestra pare un quadro di Vermeer: il commerciante chino sul suo lavoro in un’atmosfera raccolta, severa, silenziosa, quasi come dentro a una chiesa. Come mai, ammirando quel quadretto, Theodore non ha capito subito — come, invece, il lettore — che un matrimonio tra un artista fantasioso e disordinato e una ragazza cresciuta ed educata in quella bottega non avrebbe potuto funzionare?
Alberto Savinio,
Poltromamma
Interior designer d’eccellenza anche Alberto Savinio, che in vari suoi racconti descrive mobili che arredano le stanze: singoli mobili di preferenza, come l’indimenticabile poltrona tratteggiata in Poltromamma, che il professor Luigi Fos Respigli si porta dietro in tutti i suoi traslochi. Poltrona-mamma, ma anche poltrona-amante, pare di capire. «Carezzava i suoi fianchi di velluto — si legge a un certo punto — nei quali le tarme avevano aperto vaste radure; lasciava scorrere nella mano a tubo la frangia che il tempo aveva diradato come la dentatura di un vecchio; coricava con infinite cure la poltrona sul fianco, metteva a nudo le sue parti pudiche, toccava con sapiente mano da chirurgo i tiranti rilassati, le molle arrugginite. Poi, avanzando per gradi, come in una calcolata operazione sessuale, toccava leggermente la nappina pendula dall’orlo del bracciolo, la prendeva delicatamente con due dita, baciava quella manina bianca e stanca, quella manina molle e disarticolata, quelle dita di cordonetto».
Da non potersi più sedere su di una poltrona di velluto senza pensare a questa di Savinio.
Sándor Márai
Confessioni di un borghese
E che dire dello sguardo attento sui salotti dell’ungherese Sándor Márai che, nel suo libro di memorie Confessioni di un borghese, spesso si sofferma a osservare dettagliatamente oggetti e mobili? Egli ci mostra salotti che attraverso gli arredi raccontano le vicissitudini delle famiglie, il loro livello culturale, la loro posizione nella classe sociale, il loro arrivismo, le loro capacità economiche. E si accanisce in particolare contro la mostruosità di accessori e soprammobili che alla fine dell’Ottocento hanno devastato la luminosa semplicità del Biedermayr che per anni aveva dominato nelle stanze della borghesia mitteleuropea: «... Le palme agli angoli delle stanze, la profusione di cuscini sui divani, sulle poltrone e perfino sul pavimento — dove servivano da poggiapiedi —, il cervo d’argento sulla scrivania con la penna d’oca infilata tra le corna, il calamaio di bronzo in guisa di civetta, il fermacarte di marmo a forma di mano, le tende di perline colorate, gli attizzatoi con l’impugnatura in nichel a forma di zoccolo di camoscio, le cicogne di porcellana con piante sempreverdi tra le ali, le gru di ghisa argentata con i biglietti da visita nel becco...».
Preoccupante il fatto che molti di questi oggetti si trovano oggi sui banchetti dei rigattieri e che, perciò, possono sempre tornare a minacciare le nostre stanze. Per salvarci dal pericolo ci vorrebbe ad ogni epoca, in primis naturalmente la nostra, non tanto un architetto o un arredatore, bensì uno scrittore come Sándor Márai che, con occhio esperto (di nipote di fabbricante di mobili), ci segnalasse — per una forma di morale non solo estetica — le mostruosità che ospitiamo in casa.
Isabella Bossi Fedrigotti