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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

LE SETTE VITE DELLA RADIO

Un’ora e mezza di musica e parole che terminarono per «far riposare le esauste valvole». Passati 87 anni, tre mesi e una manciata di giorni da quel 6 ottobre 1924, le «esauste valvole» della radio italiana — prima Uri, poi Eiar, quindi definitivamente Rai fino alla nascita di una miriade di private e locali — sono ancora lì. A dispetto di nuovi media più luccicanti — in principio la tv, una radio con le immagini; poi Internet, una tv connessa con il mondo — l’attrazione suadente per le onde elettromagnetiche che svolazzano sulle nostre teste e poi escono sotto forma di suoni intelligibili dalle casse dell’auto, da quelle di un pc o da uno smartphone rimane ancora intatta.
Allungata per tutti l’età pensionabile, anche quella della radio sembra lontana da venire. L’ultimo Rapporto sulla comunicazione del Censis racconta che l’utenza complessiva della televisione rimane stabile al 97% della popolazione italiana, ma quella della radio si attesta all’80%, ben più su di Internet che arriva «solo» al 53%. L’homo auscultans però sembra inafferrabile come le onde di cui si nutre. Il mondo della radiofonia naviga a vista ormai da due anni, da quando è crollato il sistema di Audiradio, la società che si occupava del rilevamento degli ascolti messa in liquidazione lo scorso giugno a causa della grande guerra tra le sue diverse anime: la Rai, i grandi network, l’Upa (Utenti pubblicità associati). Il nodo era il sistema per rilevare gli indici di ascolto, che aveva creato due gruppi antagonisti. Da una parte il blocco degli «amanuensi», che premevano per un panel di 15 mila persone a cui affidare il compito di compilare manualmente un diario: la Rai, le radio del gruppo Espresso (Deejay, Capital, M2O), Radio 24 del «Sole 24 Ore» e R101 (Mondadori). Dall’altra il blocco dei «telefonisti», sponsor del sistema Cati (Computer-assisted Telephone Interviewing), un’indagine telefonica su un campione più largo (120 mila ascoltatori) basata su «una dichiarazione di ricordo» di quanto ascoltato: Rtl, Rds, Kiss Kiss, Radio Italia e il gruppo Finelco (105, Monte Carlo, Virgin). Muro contro muro dal 2010. Per uscire dall’impasse ora si parla di RadioMonitor, una ricerca Gfk Eurisko ibrida: incentrata sul Cati, ma anche sul meter, un apparecchio in grado di rilevare passivamente, senza l’intervento dell’utente, come e quando si ascolta la radio. I tempi? Evanescenti come l’etere, forse in primavera.
Un medium dunque inafferrabile, volatile come i suoni che riproduce, eppure con un bacino di ascolto enorme. Rifacendosi agli ultimi dati ufficiali erano stati oltre 41 milioni gli ascoltatori della radio. Al primo posto c’era Radio 1 (la rete dell’informazione soprattutto) che arrivava a 7 milioni 634 mila ascoltatori nel giorno medio. Al secondo posto Radio Deejay, quella di Linus e Nicola Savino, di Fabio Volo e del Trio Medusa, con 6 milioni 276 mila, al terzo Rtl 102.5 (informazione e musica da classifica, non di nicchia) con 5 milioni 533 mila. Rai Radio 2 (con i suoi titoli da fattoria, Il ruggito del coniglio della coppia Dose e Presta, Un giorno da pecora del duo Sabelli Fioretti e Lauro) si piazzava in quarta posizione con 5 milioni 280 mila ascoltatori e precedeva Radio 105, quella dello Zoo, di nome e di fatto, che si fermava a 4 milioni 764 mila. Dati già allora approssimativi, perché il sistema non teneva conto dei nuovi modi di fruizione del mezzo, come lo streaming (l’ascolto online, dal vivo o in differita) e il podcasting (scaricare un programma dal sito dell’emittente e ascoltarlo quando si vuole offline).
Diffusa e anche affidabile, così viene percepita la radio. Sempre il Censis fotografa la situazione: in una scala che va da 1 (minimo) a 10 (massimo), televisione e carta stampata non raggiungono il punteggio della sufficienza in termini di reputazione, secondo l’opinione degli italiani: 5,74 è il voto medio di credibilità della televisione e 5,95 è il voto dato ai giornali. Maggiormente credibili radio (6,28) e Internet (6,55). Questo perché la radio è un medium «mite», non invasivo, percepito come libero e disinteressato, magari anche quando non lo è. Basta pensare alle polemiche che accompagnano la sostituzione di un direttore nei notiziari televisivi e quanto infinitamente meno si parli delle direzioni radiofoniche, eppure se la Rai è lottizzata pare improbabile credere che lo sia solo a targhe alterne.
Mezzo di comunicazione di massa da un lato, ma dall’ascolto altamente individualizzato, raramente familiare o collettivo, quasi un’esperienza intima in grado poi di creare un ambiente condiviso e in cui riconoscersi, confermando il ruolo autonomo che i media sono in grado di esercitare nella cultura sociale. Come ha spiegato Enrico Menduni professore di cinema, fotografia, televisione al Dams dell’Università Roma Tre, «mentre i media legati alle immagini si dedicano prevalentemente alla narrazione, e quindi a narrativizzare e spettacolarizzare la società, la radio appare evocativa ed espressiva, emozionale e confidenziale». (I linguaggi della radio e della televisione, Laterza).
Le onde sonore tessono una rete immateriale che raggiunge ascoltatori differenti per età, reddito, istruzione e proprio per questo rendono possibile accumulare esperienze condivise esattamente come succede nei luoghi fisici, questo perché attraverso i media — nell’interpretazione di Joshua Meyrowitz — «l’ambiente domestico è meno circoscritto e separato perché i membri della famiglia accedono, e sono accessibili, ad altri luoghi e ad altra gente». La radio come «tamburo tribale» per usare l’espressione di Marshall McLuhan, ossia uno strumento in grado di tenere insieme una comunità.
Fenomeno di aggregazione anche all’università, il tam tam negli ultimi anni è diventato accademico perché quasi tutti gli atenei italiani hanno una loro radio, grazie alla Rete che abbatte i costi: se una frequenza via etere può valere 1 milione di euro, una web radio — un’emittente che trasmette attraverso Internet e si può ascoltare su uno smartphone — si realizza con 10 mila euro. Le radio studentesche favoriscono aggregazione e community attraverso eventi e programmi radiofonici, costituiscono un servizio integrato alle attività dell’ateneo, consentono alle università di uscire dal guscio della teoria e proporre un’esperienza didattica pratica. Lo scoglio è riuscire a dare a questi progetti quella continuità temporale che li renda affidabili, infatti spesso sono legati alla stagionalità dell’impegno studentesco. Chiuso l’anno accademico, si chiudono le trasmissioni.
Esperienza spesso intima, si diceva. Non è dunque sorprendente sia l’autoradio il modo più diffuso di ascolto: è così per il 65,2% degli italiani, un dato che nell’ultimo biennio è salito di 1,4 punti percentuali. Mentre è rimasto stabile l’ascolto via Internet (8,4%) o tramite cellulare (7,8%), è invece in lieve flessione l’uso del lettore mp3 come radio (14,8%), in molti casi soppiantato dagli smartphone.
Il fascino di un mezzo mobile. Altra forza della radio: la visione è necessariamente statica, l’ascolto può essere fatto anche spostandosi oppure svolgendo contemporaneamente altre attività.
Il fascino di una voce senza volto. La «sorella cieca» della televisione è per sua natura refrattaria al processo di vetrinizzazione prima e velinizzazione poi della società. Anche se non è certo immune da squarci di superficialità, conta quello che dici e come lo dici, non l’aspetto che hai. Spiega Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica all’Università di Milano-Bicocca: «La radio ha un ascolto qualificato e attivo, perché sviluppa questa singolare interattività, che non è tanto quella dell’intervenire, ma è quella del riflettere, soprattutto su argomenti su cui non si ha la competenza. La dimensione di apprendimento della radio è molto più rilevante di quella della tv che si disperde nei molti sensi, quindi anziché produrre attenzione deconcentra. Per questo una trasmissione di un certo livello è più facile farla alla radio piuttosto che in televisione. Questo vale anche per la musica, soprattutto per certa musica, perché la radio produce maggiore attenzione alle sonorità, mette in contatto con il suono con una maggiore intimità di quanto non faccia la televisione perché la visione molte volte è surrogatoria rispetto al suono. Da questo punto di vista la radio ha una peculiarità non tramontata, una specificità tale che la può far durare insieme agli altri mezzi di comunicazione».
Medium ancora modernissimo lo definisce Renzo Arbore: «La radio ha già fatto da tempo la scelta tematica che ora vediamo anche nella televisione, c’è la radio di sola musica italiana, quella che fa solo rock, la radio parlata, Radio Radicale, Radio Subasio... ognuno ha la sua radio preferita». Carlo Freccero, esperto di comunicazione e direttore di Rai4, analizza questa tendenza attingendo alle teorie della moderna economia legata al web: «In questo periodo di "sciopero" della tv generalista che ha girato a vuoto senza produrre niente di nuovo, la radio ha saputo lavorare sulla cosiddetta coda lunga, ossia su un pubblico specializzato, ha raggiunto con il moltiplicarsi delle emittenti ogni tipo di nicchia di ascoltatori, soddisfacendo chi è alla ricerca di contenuti specifici sia negli interessi personali sia nei gusti musicali».
La radio viene percepita come più libera, è effettivamente così? «La radio è estremamente più libera della tv — a parlare è ancora Freccero —: un programma come I soliti idioti di Mtv è un’eccezione. Non parlo di politica, ma a livello di linguaggio e argomenti, c’è libertà totale di espressione, c’è meno controllo, si può parlare di tutto».
Grande tematizzazione, ma tre tendenze intramontabili, illustrate da Arbore: «C’è il filone che — lo dico con un po’ di orgoglio — abbiamo inventato noi, con Alto Gradimento, quello che ora si chiama "cazzeggio", ma noi definivamo più aulicamente climax. L’altra conquista è stata la telefonata, la radio al servizio del cittadino che con il cellulare si è sviluppata ulteriormente: "Il programma lo fate voi". Infine la radio di parola che tratta temi di attualità o costume: si alimenta la discussione con la lettura dei giornali oppure si commenta immediatamente la notizia appena arrivata, questo credo sia il futuro della radio». Arbore è estroso anche nell’ascoltarla: «Ne ho 15, ognuna sintonizzata su una stazione diversa, a seconda di quello che voglio sentire accendo quella giusta».
Renato Franco