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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

«AUSTRIACI», VIRTUISTI RADICALI, ANTICLERICALI: UN ARCIPELAGO LITIGIOSO

Diffusa, dispersa, litigiosa. Così appare, a un primo sguardo, la galassia liberale italiana, a circa venti anni dalla presunta «rinascita del liberalismo» e dopo la crisi delle culture politiche dominanti nella «prima Repubblica». Non potendoci fidare delle autocertificazioni (per ognuno il «vero liberalismo» è solo il proprio); non esistendo d’altronde un’autorità garante e super partes del liberalismo autentico; diamo metodologicamente per buono il concetto più pluralistico possibile e proviamo a disegnare una mappa.
Essendo il liberalismo italiano rinato sotto le insegne protettrici dell’individualismo metodologico della scuola austriaca, e soprattutto di Friedrich von Hayek, una prima e nutrita pattuglia è quella dei liberisti senza se e senza ma. La loro è una sorta di mistica del laissez-faire, dell’Ordine Spontaneo che comunque si crea per opera della Provvidenza laica. In sostanza, una metafisica, se vero è che tale è ogni formula di pensiero che si voglia valida in astratto, a prescindere dalla realtà. Una ideologia tanto più estrema in quanto nega di essere tale. I pensatori raccolti attorno all’Istituto Bruno Leoni (Alberto Mingardi, Carlo Lottieri, Serena Sileoni, per fare qualche nome) o alla Adam Smith Society (Alessandro De Nicola), sono un buon esempio di questa corrente. La quale si incrocia e spesso si sovrappone con il libertarismo di destra o anarcocapitalismo: l’individuo ha diritti quasi illimitati e lo Stato è un male quasi mai necessario. Con una punta di raffinatezza intellettuale nella scelta delle opere in catalogo, si segnala il libertarismo intellettuale e oserei dire estetico della casa editrice Liberilibri di Aldo Canovari, fra l’altro benemerita per la traduzione di importanti opere classiche o contemporanee.
Ad introdurre Hayek in Italia, traducendone le opere e creando collane (penso alla «Biblioteca austriaca» dell’editore Rubbettino), fu Dario Antiseri, che era andato gradualmente sostituendo, nel corso degli anni Ottanta, Karl Popper con l’autore de La via della schiavitù come proprio punto di riferimento intellettuale. Antiseri ha comunque inserito l’individualismo metodologico in una più ampia prospettiva di cattolicesimo liberale, sostituendo al concetto di individuo, che conserva una forte impronta utilitaristica, quello di persona. E temperando l’ideologia hayekiana dell’homo oeconomicus con gli elementi solidaristici dell’economia sociale di mercato.
In opposizione al liberalismo antistatalistico di matrice hayekiana si pone il cosiddetto pensiero liberal: se il primo insiste sull’ordine spontaneo e sulle virtù del capitalismo, il secondo mette al suo centro i diritti civili e politici (anche e soprattutto delle minoranze: gay, donne, immigrati) e pone allo Stato il compito di regolare e indirizzare le forze del mercato. Nonostante molti sforzi fatti per metterne in luce gli elementi di affinità, che pur ci sono, con la tradizione del socialismo liberale italiano, i liberal assumono spesso presupposti virtuistici che cozzano in maniera palese con l’essenza più profonda, antipaternalista e antiperfezionista, del liberalismo. In loro agisce, nel profondo, l’idea non liberale della «società giusta» o «bene ordinata», dell’«ottimo Stato liberale», che il pensiero filosofico dovrebbe elaborare e poi chiedere ai politici di applicare. I limiti intellettualistici delle «teorie normative» di rawlsiani come Salvatore Veca e Sebastiano Maffettone sono in questo senso evidenti. Ma evidenti sono anche i difetti delle teorie dell’uguaglianza e della democrazia elaborate da autori immersi in un certo dibattito americano di non molta sostanza speculativa: penso a una Nadia Urbinati o a un Alessandro Ferrara.
C’è poi anche una deriva radicale nel liberalismo. Non penso tanto a Marco Pannella e ai suoi seguaci, che hanno svolto nel concreto della politica attiva un’azione emancipatrice a cui non si può non prestare riconoscenza. Penso a esperienze come quelle della rivista «Critica liberale» di Enzo Marzo, ove il liberale è un rivoluzionario in servizio permanente effettivo che deve rispondere a una «emergenza democratica» sempre in atto. Il mondo deve essere sempre purificato dagli infames. E la stessa laicità diventa una metafisica che vede ingerenze papaline anche dove non ci sono.
Sulla centralità dell’idea di laicità si fonda anche il ben diverso liberalismo di Massimo Teodori, che, pur ricco di fecondi stimoli, è forse troppo appiattito sulla vicenda italiana dei rapporti fra Stato e Chiesa. Legati a un liberalismo più tradizionale, e metapolitico come quello crociano, sembrano essere Dino Cofrancesco, Piero Ostellino e Angelo Panebianco. Quest’ultimo, in particolare, ha fatto propria la lezione di Nicola Matteucci, legando la dottrina liberale al realismo politico e all’idea della competizione e circolazione delle élites.
In effetti, nella vicenda del liberalismo attuale si nota la scarsa considerazione della solida, seppur minoritaria, tradizione liberale italiana. Di quel pensiero che, abbeverandosi al pensiero di Croce e Einaudi, è scorso come un fiume carsico irrorando in modo proficuo il Novecento. Certo, l’interesse di studio per i due padri nobili ha ripreso vigore, ma, intenti ad importare liberalismi da oltreoceano o dalla vicina Austria, non ci curiamo abbastanza del patrimonio etico-politico che sprigiona dalle loro opere, pur molto diverse per impianto e risultati. Fosse perché entrambi hanno inteso il liberalismo come fondato sul conflitto (regolato) e sull’antagonismo e non su una concezione statica di «ottimo Stato liberale»?
Corrado Ocone