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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

LA FINE DELL’ILLUSIONE LIBERALE - A

ll’improvviso, vent’anni fa, in Italia divenne di gran moda definirsi «liberali». Oggi invece, come amava dire Montanelli, se si aprisse una sezione di liberali si farebbe difficoltà a trovare il quarto per giocare a carte. All’improvviso tutti diventarono «liberali». Nel terremoto di Mani Pulite crollavano identità politiche, patrie culturali, insegne ideologiche e il liberalismo (o anche, nella sua versione soft: liberal-democrazia) sembrava sintetizzare il nuovo marchio onnicomprensivo. Gli oltranzisti dell’antiliberalismo sostenevano addirittura che la cultura liberale era diventata il nuovo «totalitarismo». Figurarsi: vent’anni dopo si può constatare che era tutto finto. Tutto svanito. Liberale è di nuovo fuori moda. Poco sexy. Brilla di nuovo il feticcio dello Stato. Siamo rimasti così poco liberali che si fa fatica addirittura a ricordare le meraviglie dell’habeas corpus, l’idea stessa di un ambito individuale protetto dalle incursioni del potere pubblico. Vent’anni fa: tutti liberali. Oggi il più illiberale e intrusivo degli slogan: «Intercettateci tutti». Il ribaltamento è totale.

Ex fascisti, ex comunisti, ex democristiani si accostarono al liberalismo come a un nuovo fonte battesimale. La finzione è durata poco. Da «meno Stato, più mercato», siamo di nuovo allo Stato come prius rispetto alla persona. Gli ex fascisti hanno riscoperto l’anima della «destra sociale», il modello corporativo, la difesa delle «categorie». Non degli individui, pilastro di ogni antropologia liberale, ma delle «categorie», dove l’appartenenza conta più dell’irregolarità dei singoli. Gli ex comunisti, dopo una rapida immersione nella liberaldemocrazia, riscoprono invece l’identità socialista old fashion, l’intoccabilità del Welfare italiano, l’invincibile diffidenza per il privato. Un tempo avanguardia per la liberalizzazione dei servizi idrici, devastati dalla corruzione degli enti locali e dalle pigrizie della gestione monopolistica di un bene pubblico, il Pd si è per esempio impegnato nel referendum contro la «privatizzazione dell’acqua». Non era vero, non si «privatizzava» affatto l’acqua, come si denunciava con una ipersemplificazione demagogica, ma la sola idea che il «privato» potesse scalfire il monopolio dello Stato nella gestione dell’acqua provocava orrore e rigetto psicologico: e il Pd si adeguò. Vero è che anche prima l’elogio convenzionale e insincero del liberalismo si accompagnava alla rituale deplorazione del liberismo, immancabilmente bollato nella vulgata come «selvaggio» e «senza regole». Ma adesso, senza neanche scomodare la celeberrima e attualissima controversia tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, tutto il liberalismo è diventato ipso facto «liberismo», ovviamente «selvaggio». Se falliscono le banche, la colpa è del liberismo. E se falliscono gli Stati, la colpa di chi è? Ma sempre del liberismo, ovvio.
A destra volevano costruire addirittura il «partito liberale di massa». Entusiasmante prospettiva. Poi però Berlusconi, anni e anni dopo, ha svelato il nome di chi avrebbe voluto come prestigioso insegnante in una sua idealizzata università liberale: Vladimir Putin. Putin maestro di liberalismo: non trattandosi di una barzelletta, c’è qualcosa che non funziona. Negli ultimi tempi, prima della cruenta defenestrazione a Tripoli che tutti conosciamo, la metamorfosi dei liberali del centrodestra è stata all’origine addirittura di una corale riabilitazione delle virtù di Gheddafi. Un tiranno sanguinario veniva preso in seria considerazione come degno alleato e mica soltanto per opportunismo, o per un eccesso di accondiscendenza (baciamano compreso) dettato da considerazioni di interesse, per dire, come purtroppo hanno fatto in molti nel mondo. No, veniva preso in considerazione come prototipo di un nuovo tipo di democrazia. Certo non ancora meritevole di insegnare in un’università liberale, ma quasi. Per i liberali i dittatori dovrebbero essere solo dittatori e basta e le contorsioni giustificazioniste non dovrebbero essere il loro esercizio preferito. Ma per l’anomalo centrodestra italiano i dittatori, se servono a mantenere l’ordine, possono passare anche per ammirevoli alleati. Una regressione culturale che riporta all’epoca in cui, in odio al capitalismo anglosassone, si stava con le Malvinas dei gorilla della giunta argentina pur di andare contro le Falkland della signora Thatcher.
La stessa signora Thatcher che il film The Iron Lady descrive come simbolo di un passato oramai sepolto: la campionessa della determinazione, dell’oltranzismo liberista, la combattente contro uno Stato senza limiti ma che, sovraccarica di anni e di delusioni, svanisce nella perdita senile di sé, in un lungo tramonto in cui, come ha scritto uno dei superstiti del pensiero liberal-liberista che fu come Alberto Mingardi, la lady di ferro pare «rattrappita nell’età e dal dolore, simbolo della triste caducità dell’ambizione». Nell’epoca tempestosa del liberalismo e del liberismo, la signora Thatcher incarnò una rivoluzione. Oggi, solo ciò che resta di un sogno dissolto.
Resiste eroicamente una piccola casa editrice liberista e liberale come Liberilibri, ma nel mainstream del centrodestra, culturalmente ispirato alle lezioni ideologiche di Giulio Tremonti, il liberalismo, trasformatosi come sotto l’effetto di una sostanza velenosa in «mercatismo», diventa una bestia pericolosa. Si riscoprono lo statalismo, il dirigismo, il «colbertismo», l’interventismo pubblico. E si diffida del «privato». Un tempo il centrodestra esaltava gli animal spirits del capitalismo. Oggi è il capitalismo ad essersi trasformato in oggetto della diffidenza culturale. La «mentalità anticapitalistica», come la chiamava Friedrich von Hayek (pensatore celebrato e poi dimenticato) conosce un nuovo periodo di splendore. Alitalia, sull’orlo del fallimento, venne negata agli acquirenti privati in nome della «compagnia di bandiera»: il centrodestra «liberale» sventolò il tricolore di Stato prima del mercato, i costi accollati alla collettività, come avveniva ai tempi vituperati delle partecipazioni statali, dell’irizzazione dell’economia. E la sinistra? Pochi anni fa Franco Debenedetti, insieme ad Alesina e Giavazzi, si affannava a scrivere libri per dimostrare che «il liberismo è di sinistra». La sinistra non gli ha dato retta. Anzi, sembra ancora più pentita delle sue tentazioni liberali. La sua divinità politica è tornata ad essere lo Stato: lo Stato che interviene, interferisce, dirige, si intromette, controlla, lottizza, tassa, distribuisce. In una parola, comanda. Del resto l’«Economist» ha dedicato la sua copertina al «capitalismo di Stato», la nuova (e anche vecchia) creatura che domina in questo inizio di XXI secolo. Chi l’ha detto che, con il liberalismo ammaccato e con lo Stato trionfante, la sinistra è diventata fuori moda?

Nella triade simbolica della Rivoluzione francese, la liberté è sempre quella che ci rimette, anche sul piano culturale. Il comunismo distruggeva la libertà, in nome dell’eguaglianza. Il fascismo in nome della nazione, che era un concetto più aggressivo e coercitivo della fraternité. Nel nome della sicurezza si limita e si comprime la libertà di tutti, come è avvenuto con il Patriot Act all’indomani dell’11 settembre. I liberali sono stati acquiescenti persino con la tortura, visto che il waterboarding, contestatissimo da Christopher Hitchens che volle sperimentare su di sé quel supplizio, non è diventato motivo di scandalo per chi, almeno in teoria, dovrebbe opporsi a ogni genere di tortura, per qualsiasi ragione. Ma in guerra, che richiede silenzio e disciplina, la critica liberale è fuori posto. Quindi da mettere all’angolo. C’è sempre un motivo per metterla all’angolo.
Nel nome della lotta agli evasori fiscali, si azzera la libertà di tanti cittadini che non evadono il fisco, ma non vorrebbero che le loro questioni private venissero controllate dal Moloch dello Stato che ficca il naso nei tuoi consumi, nelle tue relazioni personali, nel tuo conto corrente, nei tuoi itinerari di viaggio, negli alberghi che frequenti, negli aerei e nei treni che prenoti, nei regali che vuoi liberamente fare se non hai violato la legge. Invece no: la disfatta della cultura liberale la si misura dalla riduzione della rivendicazione della libertà personale a fisima formalistica, a eccentricità, se non addirittura a una forma di occulto fiancheggiamento degli evasori fiscali. Nel nome della guerra a cricche e caste, le intercettazioni telefoniche a rete, a pioggia, a tempesta, a mosaico vengono considerate un indispensabile strumento giudiziario, che non sopporta limitazioni, remore o confini troppo stretti. Se i pochi liberali rimasti in circolazione sostengono che non è bello un potere che intercetta chiunque, anche chi non è indagato, e permette la pubblicazione di qualsiasi sospiro telefonico, anche se non è un reato, allora scatta inesorabile il sospetto: sei un amico dei corrotti, un manutengolo della cricca, un servo degli affaristi, una marionetta nelle mani della politica. «Sei un formalista», si sente dire. E infatti l’idea che lo Stato di diritto sia una «forma» attraverso cui i cittadini sono tutelati da garanzie sconosciute negli Stati autoritari, polizieschi e autocratici è diventata un’idea bizzarra, un intralcio, un modo per creare ostacoli alla marcia trionfale del Bene e della Giustizia. E l’individuo, il singolo, la persona? Da sacrificare senza indugi, nel nome di un principio superiore e intangibile.
La diffidenza antiliberale per il singolo è della stessa pasta della diffidenza antiliberale per il «privato». Guai a chiamare «privatizzazioni» le «liberalizzazioni», altrimenti il nuovo senso comune illiberale potrebbe offendersi e denunciare le oscure trame del «liberismo selvaggio». L’illusione liberale si infrange sulla trincea di questo nuovo senso comune che sembrava in crisi, ma che è rinato più baldanzoso di prima. Tutti liberali, vent’anni fa? Pochi e sparuti, i liberali di oggi. Come un tempo, asserragliati in ottimi centri studi (l’Einaudi, il Bruno Leoni) e in micro-partitini (o rifugiati tra i Radicali che ancora amano definirsi lib-lib-lib: liberali-liberisti-libertari). L’illusione è finita.
Pierluigi Battista