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 2012  gennaio 28 Sabato calendario

TWITTER CENSURA SE STESSO. E LA RETE PENSA ALLO SCIOPERO

Sembra il tweet perfetto, quello capace di colpire se stesso: «Twitter potrà censurare Twitter. È come se l’acqua si sposasse con il fuoco». Un ossimoro. Entra in 140 battute e riassume bene il senso di ciò che la società californiana, accreditata universalmente di aver saputo dare vita a un nuovo potente strumento di libertà d’espressione non sottomettibile, ha deciso ieri. Forse, senza esagerare, è anche la fine di Twitter per come lo abbiamo conosciuto e considerato fino ad oggi. «Se Twitter censura lo abbandonerò immediatamente» ha protestato subito il noto artista dissidente cinese Ai Weiwei (tradotto dagli ideogrammi originali in inglese dai redattori dell’account beta @aiwwenglish). E non è stato certo il solo. Reporters Sans Frontières è andata giù molto peggio. «Rimuoverete i messaggi legati alle rivendicazioni della minoranza curda in Turchia?» ha scritto in una lettera aperta il direttore Olivier Basille al cofondatore del sito Jack Dorsey.
Il nuovo media che ha avuto un ruolo politico nella recente Primavera araba ha comunicato sul proprio blog ufficiale (blog.twitter.com) di aver sviluppato una tecnologia che gli permetterà di bloccare alcuni tweet, Paese per Paese, se il governo locale li considererà contrari alla legge. Potenti multinazionali delle telecomunicazioni, in passato, hanno visto vacillare la propria credibilità per molto meno. Vodafone, proprio in occasione delle proteste in Egitto, era stata accusata di lavorare per il regime dopo aver acconsentito allo switch off delle proprie reti. I responsabili del blog hanno usato il verbo to flow, fluire. La versione dei fatti dell’azienda basata a San Francisco è che la decisione è stata presa per difendere chi twitta. «Man mano che cresciamo a livello internazionale — si legge nel blog — andiamo in Paesi con differenti posizioni in materia di libertà di espressione. Alcune nostre idee differiscono così tanto che non potremmo esistere lì». «Non abbiamo ancora utilizzato questa possibilità, ma se un Paese ci chiederà di bloccare un tweet proveremo a contattare l’utente e indicheremo chiaramente quando il messaggio è stato bloccato». E ancora: «Il contenuto sarà fermato in un paese, ma visibile nel resto del mondo. Non rimuoveremo il post in base al loro contenuto». Una spiegazione che si trasforma in un boomerang: rendere visibile il tweet al di fuori del confine geografico è come ammettere che non andava cancellato e che ci si è piegati a qualcosa di contrario alla libertà d’espressione. Dorsey ha tentato di trincerarsi dietro esempi di buon senso come la Francia e la Germania dove i contenuti a favore del nazismo sono vietati. Anche in Italia, per esempio, il sito potrebbe essere chiamato ad intervenire per apologia di fascismo.
Ma è chiaro che il nervo scoperto della mossa è quello toccato da Reporters Sans Frontières. «I vietnamiti che usano il vostro servizio non potranno più denunciare le conseguenze nefaste sull’ambiente dell’esplosione delle miniere di bauxite?» ha insistito Basille.
Più che «fluire», i tweet potrebbero affogare. Per chiunque usi Twitter è la fine dell’età dell’innocenza. Ieri era impossibile pensare di seguire il flusso delle proteste. Come un tam tam naturale è rimbalzata la proposta di uno sciopero contro la società, l’auto-oscuramento dei tweet per 24 ore. È normale. Chi vive con Twitter seguendolo talvolta in maniera maniacale lo considera quasi uno strumento di tutti e di nessuno. Scevro da qualunque logica economica e di business. Ma così non è. Il continente digitale si sta piegando — come prima di esso avevano già fatto Google e Facebook — alle regole della politica offline, dando un duro colpo al desiderio di combattere le dittature grazie all’intangibilità della protesta sul web. E ieri i nodi sono venuti al pettine. Dietro la decisione è facile vedere il desiderio della società di sbarcare in Cina dopo il recente viaggio di Dorsey che proprio durante la visita aveva definito un peccato l’assenza dello strumento. Twitter punta ormai al miliardo di utenti. Prima o poi dovrà sbarcare a Wall Street come sta facendo anche Facebook. E dopo essersi guadagnato il diritto ad entrare nei libri di storia per aver «aiutato» le rivolte di piazza Tahrir che hanno rovesciato il regime di Hosni Mubarak, al potere dal oltre 30 anni senza una vera opposizione, la società è accusata adesso di voler pagare il proprio obolo al business.
Il microblogging potrebbe superare presto il firewall tra Hong Kong e i territori cinesi. Ma per i dissidenti potrebbe non essere la notizia attesa da tempo.
Massimo Sideri