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 2012  gennaio 28 Sabato calendario

IL QUESTIONARIO DI DAVOS

Lo spread dei Btp sui Bund, il termometro della febbre, è più basso di quando Standard & Poor’s declassò l’Italia due settimane fa. Ieri era a quota 404 punti, allora era a 487. L’agenzia di rating quel giorno spiegò la sua decisione dicendo che il mercato di fatto l’aveva già presa, ma forse è proprio perché S&P si è limitata a seguire gli investitori che questi ora rifiutano di seguire lei: in quella scelta non c’era molta analisi dei dati di fondo del Paese, dalla riforma pensioni al taglio del deficit verso quota zero. Era solo la presa d’atto che un debitore può finire in difficoltà se i suoi creditori pensano che lo sia, lesinandogli dunque i prestiti.
Simili osservazioni si potrebbero muovere da ieri sera sul conto di Fitch. Anche la terza delle grandi società di valutazione ieri ha tagliato di due gradini il giudizio sull’affidabilità finanziaria dell’Italia, benché il suo rating resti sopra a quello delle concorrenti S&P e Moody’s. Ma le motivazioni suonano decisamente familiari. Fitch parla dell’assenza di quello che chiama un vero «muro taglia fuoco», un fondo salvataggi credibile in Europa. Evoca il rischio che una crisi si auto-avveri solo perché i mercati la pensano plausibile e finiscono quindi preda del panico, acuendo così la crisi stessa. Ricorda la recessione nella quale gran parte dell’area euro sta scivolando. Per la verità, l’agenzia cita anche fattori specifici sull’Italia, soprattutto il rischio che la caduta dell’economia vanifichi quanto fatto sinora per mettere i conti in ordine. È una tela di Penelope, l’austerità tessuta di giorno rischia di disfarsi con il calo del fatturato che può provocare. E anche qui i contro argomenti non mancherebbero: se un anno fa l’Italia meritava un rating due gradini sopra, perché tagliarlo ora che ha fatto manovre per il 5,5% del Pil e ha risolto il problema delle pensioni prima e meglio della Germania o dell’Olanda?
È una discussione che può andare avanti all’infinito, ma non sposta di un centimetro una realtà di fondo che ieri Fitch stessa ha ricordato: da questa crisi si esce solo con una ripresa vera e diffusa, cioè non subito. Noi italiani siamo i campioni del mondo dei colpi di reni, degli scatti improvvisi per balzare fuori da situazioni che sembravano disperate. Ma con tutte le incoerenze del caso, le agenzie di rating e i tanti investitori in questi giorni riuniti a Davos non si preoccupano di questo. Ci parlano di ordini temporali diversi. Il malessere dell’Italia viene da lontano e neppure il più efficiente dei governi lo risolverà mai in un anno solo.
Ripensare un Paese non può essere un esercizio una tantum. In questi dodici anni di euro, l’Italia ha perso trenta punti percentuali di competitività rispetto alla Germania e non li recupererà più con nessuna svalutazione: né esterna della moneta, né interna deprimendo all’infinito il potere d’acquisto dei salari. La sola via possibile per gli italiani è accettare che dopo un brillante scatto sui cento metri, guidato da questo governo, la corsa continuerà. La domanda di fondo di Fitch, di S&P e degli investitori è che Paese sarà questo fra cinque anni. Non vogliono sapere solo se riuscirà a finanziarsi nei prossimi dodici mesi. La tenuta anche nel breve periodo dipende in buona parte dalla consapevolezza che la metamorfosi che viviamo ha radici lontane e una dimensione nella lunga durata. Ma su questo la risposta devono darla gli italiani, non Mario Monti.
Federico Fubini