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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

Il doppiogiochismo di Napolitano – Questa volta, bisogna ricono­scerlo, Roberto Calderoli qual­che ragione ce l’ha

Il doppiogiochismo di Napolitano – Questa volta, bisogna ricono­scerlo, Roberto Calderoli qual­che ragione ce l’ha. All’ex mini­stro leghista della Semplifica­zione il decreto sulle semplifica­zioni appena varato dal gover­no tecnico ha fatto venire la mo­sca al naso: e non (soltanto) per­ché a Monti è riuscito di fare quello che Calderoli e i suoi col­leghi avevano soltanto, e par­zialmente, impostato. Ma an­che, e soprattutto, perché «buo­n­a parte dei contenuti del decre­to sono gli stessi, o quanto meno una loro variante, del decreto per la crescita predisposto dal sottoscritto con Castelli, Roma­ni e Brunetta, che mai ha visto la luce a causa dell’indisponibili­tà del presidente Napolitano a firmarlo». La conclusione di Cal­deroli è apertamente polemica: «Due pesi e due misure, caro pre­sidente Napolitano, che mi ama­reggiano e che fanno vacillare la stima che avevo per lei». A sostegno della ricostruzio­ne del ministro leghista intervie­ne Brunetta: «È vero, fummo im­possibilitati a fare un maxie­mendamento al decreto perché ci furono le perplessità del Col­le ». Del resto, non è un mistero che il Quirinale, per tradizione e per cultura politica, sia da sem­p­re restìo alla decretazione d’ur­genza, preferendo invece l’iter parlamentare classico e privile­giando dunque il confronto con le opposizioni rispetto all’effica­cia e alla rapidità della decisio­ne. Nei confronti del governo Ber­lusconi più volte Napolitano è intervenuto, dietro le quinte o apertamente, per bloccare que­sto o quel decreto. Nel febbraio dell’anno scorso inviò una lette­ra ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio per «richiamare l’attenzione sul­l’ampiezza e sulla eterogeneità delle modifiche fin qui apporta­te nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge cosiddetto “milleproroghe”». In quel testo, in effetti, c’era di tutto, secondo una tradizione antica che risale alla Prima Re­pubblica: nella grande palude del bicameralismo perfetto spesso l’unico modo per appro­vare un provvedimento è infilar­lo di straforo in un decreto. Non sarà costituzionalmente irre­prensibile, ma può essere di grande utilità. Lo scorso novembre, nel pie­no della crisi finanziaria e con il governo Berlusconi oramai agli sgoccioli, il Quirinale interven­ne di nuovo per bloccare il de­creto che avrebbe reso immedia­te le misure che il governo stava per approvare in risposta alla fa­mosa lettera di Bruxelles. Secon­do Napolitano alcuni dei prov­vedimenti ipotizzati - per esem­pio quelli sul Welfare, il diritto del lavoro e i licenziamenti ­non potevano essere affrontati con uno strumento d’urgenza, ma andavano inseriti nel maxie­mendamento alla legge di stabi­lità che in quei giorni era al va­glio del Parlamento. In un paio di mesi, tutto è cam­biato. Di licenziamenti e rifor­ma dell’articolo 18 si è già co­minciato diffusamente a parla­re, e la più grande riforma delle pensioni che l’Italia abbia mai avuto è già stata fatta: per decre­to. Il «salva-Italia» e il «cresci-Italia» sono due decreti-omni­bus che contengono l’equiva­lente di una ventina di leggi e for­se più: se fossero mai venuti in mente a Berlusconi (o a chiun­que dei suoi predecessori), l’op­posizione sarebbe insorta e il Quirinale avrebbe mandato i co­razzieri. Ha dunque ragione Brunetta quando osserva, con una punta di sconsolato ramma­rico, che «avevamo ragione noi. Se si vuole avere un impatto im­mediato sul Paese, sull’econo­mia e sui mercati occorre lavora­re per decreto. Lo dicevamo noi, adesso Monti lo fa». Merito (o colpa) della Grande Crisi, natu­ralmente, che impone scelte ra­pide e decisioni immediate. E su questo nessuno discute: altri­menti perché mai avremmo mandato al governo una squa­dra di tecnici? E siccome sono tutti dei simpatici secchioni, c’è da giurare che i loro decreti sia­no inappuntabili, e che giusta­mente il Quirinale s’affretti a fir­marli quasi senza leggerli. Però il problema rimane, e pri­ma o poi meriterà una riflessio­ne più approfondita. È vero che la democrazia in Italia non è so­spesa, visto che il governo dispo­ne della (larga) maggioranza del Parlamento. Ma è anche ve­ro che il Parlamento mostra ogni giorno di più la sua inutili­tà: non esprime ministri né sot­tosegretari, non scrive le leggi, non disegna le riforme. Ai parla­mentari non è rimasto altro che qualche comparsata in tv e un voto di fiducia settimanale. Dal­la centralità del Parlamento sia­mo rapidamente passati alla sua eclissi totale: per decreto, e senza neppure accorgercene. Fabrizio Rondolino