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 2012  gennaio 28 Sabato calendario

ORSI & TORI – L’aumento di capitale di Unicredit è la dimostrazione che L’Italia c’è

ORSI & TORI – L’aumento di capitale di Unicredit è la dimostrazione che L’Italia c’è. Erano, infatti, in molti a pensare che l’amministratore delegato, Federico Ghizzoni, si sarebbe giocato il posto proponendo al consiglio d’amministrazione un aumento di 7,5 miliardi di euro, con due azioni nuove per ognuna vecchia, quando la capitalizzazione di borsa della banca era scesa a circa 10 miliardi e, lunedì 9 gennaio, primo giorno delle contrattazioni dei diritti di opzione per sottoscrivere le nuove azioni, addirittura sotto i 5 miliardi. Molti pensavano a un doppio fallimento di quell’ardita ricapitalizzazione: 1) il mercato avrebbe sottoscritto solo una parte dell’offerta, con conseguente passaggio, per quanto momentaneo, del controllo al consorzio di garanzia guidato da Mediobanca; 2) a salire sarebbero stati gli azionisti tedeschi, ansiosi di mettere le mani sulla banca. Non è accaduto niente di tutto ciò: 1) i diritti di opzione non utilizzati e non venduti, che dovranno essere messi all’asta nei prossimi giorni, sono una quantità contenuta, segno che comunque l’acquisto degli stessi diritti sul mercato è stato molto forte, come del resto era evidente dalla crescita progressiva di valore; 2) sono arrivati forti azionisti italiani e in primis Franco Caltagirone, che entrerà molto probabilmente anche in consiglio d’amministrazione, come hanno rivelato nel pomeriggio di giovedì 26 il sito MilanoFinanza.it e il canale televisivo ClassCnbc; altre fonti, come Bloomberg, hanno indicato fra i nuovi azionisti anche Diego e Andrea Della Valle addirittura con quasi il 2% del capitale e presto emergeranno anche altri investitori. Un trend, segno forte di fiducia da parte di imprenditori italiani, che lascia supporre come il controllo della banca rimarrà in Italia, potendo fare perno sulle Fondazioni bancarie che di fatto hanno dato vita all’istituto di credito italiano più importante in Europa attraverso una serie di conferimenti di loro banche nel vecchio Credito Italiano. Dopo la conclusione materiale dell’aumento di capitale, Unicredit sarà la banca europea più liquida e quindi più solida in assoluto, confermando non solo che le banche italiane sono meglio amministrate di quelle degli altri Paesi, ma anche che quando c’è bisogno di dimostrare al mercato che l’Italia è ricca di risorse per il suo sistema economico-finanziario ci sono imprenditori che non si tirano indietro. Il buon esito del colossale aumento di capitale gestito da Ghizzoni e dal direttore generale della banca, Roberto Nicastro, ha avuto razionalmente effetto positivo su tutto il listino italiano di borsa, con recuperi significativi, poiché cadono le voci speculative secondo cui le banche italiane (rappresentanti la parte più consistente del listino stesso) sarebbero state incapaci di raccogliere denaro e di rafforzarsi anche di fronte agli assurdi parametri fissati dall’Eba, l’autorità europea di controllo delle banche. Ma soprattutto è il debito pubblico italiano a trarne vantaggio con la discesa, nel pomeriggio di venerdì 27, sotto i 400 punti. Per una ragione molto semplice: larga parte dei titoli di Stato della Repubblica italiana, sottoscritti in Italia, sono proprio in mano alle banche, per le quali si prevedevano momenti di gravi difficoltà sia per la mancanza di liquidità sia per le perdite determinate dalla caduta delle quotazioni di Bot, Btp e Cct. Il buon esito dell’aumento Unicredit smentisce la difficoltà di trovare liquidità, sommandosi alla liquidità fornita a tutte le banche europee dalla Bce, guidata da Mario Draghi, con il finanziamento di 489 miliardi a tre anni al tasso di sconto dell’1%. La combinazione di queste due operazioni ha dimostrato che le banche italiane potranno rimborsare le obbligazioni da loro emesse, non dovranno più vendere titoli di Stato ma anzi potranno acquistare alle prossime aste, avendo un margine di guadagno significativo anche se lo spread sta scendendo, visto che il capitale proveniente dagli aumenti non costa se non attraverso il dividendo e quello ottenuto in prestito dalla Bce costa solo l’1%. Non secondario nel successo dell’aumento Unicredit è stata anche la decisione di promuoverlo negli spot televisivi e nelle pagine dei giornali facendo sventolare il Tricolore, stimolando così quella disponibilità a supportare il Paese nel momento del bisogno, come si erano impegnati a fare con la sottoscrizione dell’appello-impegno lanciato da questo giornale e dagli altri media di Class Editori in agosto e sottoscritto da oltre 15 mila imprenditori, manager, banchieri, professionisti e normali cittadini, compresi Ghizzoni e Nicastro. Sia pure per dimensioni minori, avendo una situazione patrimoniale più forte, anche Intesa Sanpaolo, prima banca sul mercato italiano, mesi fa aveva portato a termine con successo un adeguato aumento di capitale. Con il che le prime due banche del Paese si trovano a essere fra le più solide al mondo, confermando che la strategia seguita negli anni da Bankitalia per favorire il consolidamento sta dando ottimi frutti. Resta indietro la terza banca del Paese, Mps, per due ragioni: 1) la Fondazione Monte dei Paschi di Siena non ha mai voluto perdere finora la maggioranza assoluta della banca, per quel principio della senesità che fa onore a chi da una piccola città come quella del Palio ha avuto l’ambizione di mantenere identità piena fra banca e città stessa; ma allo stesso tempo la scelta è evidentemente inadeguata ai tempi di drammatica crisi come quella che il mondo occidentale sta vivendo; 2) alla volontà di mantenere il controllo pieno della banca da parte della Fondazione e dagli enti locali che la controllano, si è sommata l’ambizione di diventare la terza banca del Paese con l’acquisizione di Antonveneta, costata circa 9 miliardi e portata a termine, con vera sfortuna, proprio poche settimane prima che esplodesse nel 2008 la crisi dei subprime, madre di tutte le sciagure che il mondo sta vivendo. Per sottoscrivere la quota, superiore al 51%, di aumento di capitale lanciato mesi fa, la Fondazione si è indebitata e quindi pur essendo disponibile a vendere molti asset è in difficoltà a poter far fronte a un nuovo aumento di capitale. Tuttavia, per l’ottima gestione del presidente Giuseppe Mussari e del direttore generale Antonio Vigni, la banca va bene e quindi per il nuovo capo della banca, Fabrizio Viola, non sarà impossibile navigare anche senza aumento di capitale. Tuttavia, l’andamento complessivo del sistema Fondazione-Banca ha disamorato addirittura il principale azionista-imprenditore, quel Caltagirone che ora ha puntato su Unicredit, lasciando giovedì la vicepresidenza della banca senese. Gli affari sono affari. Qualche giornale vicino al bravo imprenditore romano ha addirittura esaltato la forma e la sostanza della scelta. È un po’ troppo, perlomeno per i senesi che inevitabilmente si sono sentiti traditi e abbandonati dopo essere stati sedotti dal più bravo e più liquido dei palazzinari della capitale. Le risorse di Siena non sono poche, anche grazie all’alleanza strategica stretta da Mussari e Vigni con il colosso delle assicurazioni francesi Axa, quindi ci sono altissime probabilità di successo dell’operazione uscita dalle difficoltà di Fondazione e Banca e non è escluso che, specialmente dopo l’operazione di acquisto di Fondiaria-Sai, ritornino rosa i rapporti con Unipol e soprattutto con gli azionisti Coop. Infine sarà sicuramente benefico anche per Siena il successo dell’aumento Unicredit e dell’inevitabile nuova fiducia del mercato verso le banche italiane, al punto da far apparire Mps come un’ottima opportunità di investimento. In piena sicurezza è invece la quarta banca del Paese, il gruppo Ubi, e non solo per la sua natura di banca popolare. Il territorio di riferimento, pur essendo banca nazionale, è quel tessuto industriale straordinario fra Bergamo e Brescia, dove la ricchezza abbonda. Con il sistema bancario ancora più forte di quanto non lo sia stato (rispetto a tutti gli altri) durante questi tre anni e mezzo di crisi gravissima, è corretto che il presidente del consiglio Mario Monti cominci a vedere una via di uscita nonostante non sia riuscito a smuovere di un millimetro la cancelliera Angela Merkel, pur con la sua autorevolezza e il suo pedigree di 10 anni ai vertici dell’Europa a Bruxelles. Ormai è chiarissimo a tutti che l’Italia, per uscire dalla crisi cioè per ritornare a tassi ragionevoli e riprendere lo sviluppo, può e potrà contare solo su se stessa. E mettere immediatamente nel mirino lo stock di debito pubblico che rispetto al Pil costituisce l’unico punto debole rispetto a tutti gli altri Paesi del mondo occidentale. Così l’ennesimo diniego della Merkel sulla disponibilità della Germania a rafforzare il fondo salva-Stati, pronunciato dal palcoscenico di Davos mercoledì 25, è riecheggiato come un’ultima provocazione a fare da soli, nel salone di Borsa italiana, in apertura del Forum «Tagliare il debito, fare sviluppo Day» promosso da questo giornale e dagli altri media di Class Editori. Il Forum era l’occasione per esaminare le idee e le proposte concrete elaborate nel Paese per abbattere drasticamente e immediatamente il debito pubblico di almeno 300 miliardi in tre anni, visto che l’Italia si è comunque obbligata con l’Europa (in realtà con la Merkel) ad abbatterlo di 1/20 all’anno, per i prossimi vent’anni, per la parte eccedente il 60% del pil, che è il parametro stabilito nel Trattato di Maastricht per considerare un Paese virtuoso e che viene ribadito nel patto fiscale richiesto d’imperio dalla Merkel per dare anche solo quel poco di aiuto che dà. La proposta lanciata da questo giornale e dagli altri media di Class Editori è noto ai lettori: come tutte le aziende o le famiglie super indebitate, anche lo Stato italiano deve tagliare il debito vendendo almeno una parte del suo patrimonio, che secondo calcoli di Bankitalia è pari fra asset immobiliari e mobiliari a circa 2 mila miliardi. Ma deve cedere parte del patrimonio non con le cosiddette privatizzazioni o cartolarizzazioni, come auspicherebbero le banche internazionali e alcuni soloni del liberismo. L’esperienza del passato è stata disastrosa sia per le privatizzazioni che per le cartolarizzazioni. La proposta, già tradotta in un articolato di legge preparato da Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta, è che immobili e azioni delle società campione dello Stato, sia quotate come Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, sia non quotate come Poste e Ferrovie, siano immesse per decreto in una spa o in un fondo da far sottoscrivere in base al proprio reddito, dichiarato e tassato attraverso i sostituti d’imposta, agli italiani, la cui ricchezza è pari a 3.700 miliardi di asset finanziari, di cui 1.300 cash nei conti bancari, e 4.800 miliardi di asset immobiliari. Si dovrà chiamare Fondo di risparmio degli italiani e gli asset dovranno essere immessi a un valore inferiore di un 10-15% rispetto al reale per consentire ai cittadini di fare un buon affare, riconciliandosi così con uno Stato che finora ha messo solo le mani nelle tasche degli onesti. L’operazione potrà essere frazionata in tre anni, come ha raccomandato il professor Alberto Quadro Curzio, che ha sottolineato come questa, attraverso la riduzione del costo del debito, sia l’unica via per liberare risorse utili allo sviluppo e per creare titoli che possono essere utilizzati (quelli che lo Stato conserverà) al secondo livello per garantire gli Eurobond. Il Forum ha mostrato due dissensi su questo progetto, ma tutti e due sull’equivoco che il taglio del debito sia alternativo al taglio delle spese e al recupero di efficienza. Il dissenso è stato espresso in maniera problematica dal professore Franco Bruni e in maniera secca, quasi seccata, dall’ex principal di McKinsey Italia, Roger Abravanel, secondo cui ciò che conta è solo lo sviluppo e con il 2% di crescita all’anno il debito diventa sostenibile perché via via sarà possibile ridurlo. Salerno ha dimostrato che negli ultimi 15 anni il debito è stato ridotto di un 17% del pil (salvo la ricrescita dopo lo scoppio della crisi), ma il pagamento dello stesso ha bruciato tutto il plusvalore creato dal sistema economico italiano. In numeri, oggi il debito italiano costa 90 miliardi, pari quasi ai 110 miliardi di entrate dall’Iva. Senza il taglio drastico e quindi la riduzione del costo del servizio del debito, la crescita è un’illusione, anche se è giusto fare tutto quanto crea efficienza e produttività. Ci mancherebbe altro. Per fortuna, della necessità di affrontare al più presto il taglio drastico del debito, dopo il terzo decreto sulla semplificazione, è pienamente consapevole il presidente Monti. Il quale sa bene che per restare in Europa e nell’euro, Frau Merkel pretende un taglio di almeno 50 miliardi all’anno. Meglio anticipare ed essere ancora più virtuosi, senza mettere più le mani in tasca agli italiani come lo stesso Monti ha promesso, ma anzi facendogli fare un buon investimento. Per il quale Monti potrà contare sull’appoggio di una sistema bancario solido e credibile come in nessun altro Paese occidentale. L’aumento di capitale di Unicredit, lanciato con lo sventolio del Tricolore, dimostra che L’Italia c’è. E se non bastasse c’è il sondaggio fatto fare fra gli italiani a Swg da Class Editori: l’86% degli intervistati sostiene che un taglio drastico del debito sia necessario, il 72% ha detto che il taglio deve avvenire con la vendita di asset dello Stato, l’87% sostiene che i tentativi del passato di cedere asset hanno finito per avvantaggiare solo pochi favoriti e il 60% è favorevole e sottoscriverebbe un fondo in cui conferire immobili e partecipazioni dello Stato da offrire agli italiani (e solo a loro) in funzione del proprio reddito. P.S. L’intero Forum «Tagliare il debito, fare sviluppo Day» è disponibile sulla videogallery www.milanofinanza.it. (riproduzione riservata) Paolo Panerai in maniera secca, quasi seccata, dall’ex principal di McKinsey Italia, Roger Abravanel, secondo cui ciò che conta è solo lo sviluppo e con il 2% di crescita all’anno il debito diventa sostenibile perché via via sarà possibile ridurlo. Salerno ha dimostrato che negli ultimi 15 anni il debito è stato ridotto di un 17% del pil (salvo la ricrescita dopo lo scoppio della crisi), ma il pagamento dello stesso ha bruciato tutto il plusvalore creato dal sistema economico italiano. In numeri, oggi il debito italiano costa 90 miliardi, pari quasi ai 110 miliardi di entrate dall’Iva. Senza il taglio drastico e quindi la riduzione del costo del servizio del debito, la crescita è un’illusione, anche se è giusto fare tutto quanto crea efficienza e produttività. Ci mancherebbe altro. Per fortuna, della necessità di affrontare al più presto il taglio drastico del debito, dopo il terzo decreto sulla semplificazione, è pienamente consapevole il presidente Monti. Il quale sa bene che per restare in Europa e nell’euro, Frau Merkel pretende un taglio di almeno 50 miliardi all’anno. Meglio anticipare ed essere ancora più virtuosi, senza mettere più le mani in tasca agli italiani come lo stesso Monti ha promesso, ma anzi facendogli fare un buon investimento. Per il quale Monti potrà contare sull’appoggio di una sistema bancario solido e credibile come in nessun altro Paese occidentale. L’aumento di capitale di Unicredit, lanciato con lo sventolio del Tricolore, dimostra che L’Italia c’è. E se non bastasse c’è il sondaggio fatto fare fra gli italiani a Swg da Class Editori: l’86% degli intervistati sostiene che un taglio drastico del debito sia necessario, il 72% ha detto che il taglio deve avvenire con la vendita di asset dello Stato, l’87% sostiene che i tentativi del passato di cedere asset hanno finito per avvantaggiare solo pochi favoriti e il 60% è favorevole e sottoscriverebbe un fondo in cui conferire immobili e partecipazioni dello Stato da offrire agli italiani (e solo a loro) in funzione del proprio reddito. P.S. L’intero Forum «Tagliare il debito, fare sviluppo Day» è disponibile sulla videogallery www.milanofinanza.it. (riproduzione riservata) Paolo Panerai