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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

Notizie tratte da: Maria Luisa Spaziani, Montale e la Volpe, Mondadori 2011, 12 euro.Nel gennaio 1949, al Teatro Carignano di Torino, Montale (classe 1896)conosce Maria Luisa Spaziani, letterata venticinquenne dalla «falcataprodigiosa»

Notizie tratte da: Maria Luisa Spaziani, Montale e la Volpe, Mondadori 2011, 12 euro.

Nel gennaio 1949, al Teatro Carignano di Torino, Montale (classe 1896)
conosce Maria Luisa Spaziani, letterata venticinquenne dalla «falcata
prodigiosa». Disdice ogni impegno e le dà appuntamento per l’indomani
(lei, rincasando la notte: «Mamma, non ti spaventare, domani viene a
pranzo Montale»).

«Forse bevve mezzo bicchiere in più rispetto alla sue parche abitudine
ed ebbe l’idea di mostrarci come aveva visto danzare una baiadera
durante una sua visita in Libano quattro giorni prima, su incarico
dell’Unesco e del Corriere della Sera: si alzò da tavola, prese un
grosso tovagliolo, se lo cinse ai fianchi e facendo il giro del tavolo
si mise a sventolarlo in aria a destra e a sinistra e dietro al capo,
fra l’atterrito sguardo dei presenti, soprattutto quello del monacale
Luigi Pareyson che aveva appena pubblicato un saggio sull’essenziale
radice metafisica della sua poesia».

Montale a Spaziani: «Come sarebbe bello se le vancanze fossero
lunghissime, se io potessi lasciare il Corriere, se avessi una piccola
rendita, una biblioteca di non più di cinquanta libri, come Petrarca,
una casetta sul mare con due palme... e sposassi tua sorella!».

Montale non sapeva andare in bicicletta.

Spaziani: «Più giovani di lui di qualche anno, i miei genitori non
avevano il più lontano sospetto che il grande Montale mi facesse la
corte. Così lo invitavano a condividere la nostra villeggiatura tra
Cervia e Milano Marittima».

«Dalla sua locanda, ai bordi della pineta, era sempre il primo a
giungere in giacca e cravatta, scarpe e calze al nostro ombrellone al
mattino, e così era immancabile, la sera, al rito del gelato con le
amarene. Nuotava, sì, “con caute mosse da bradipo” diceva, guardandosi
intorno “per vedere testimoni della mia bravura e prenotare eventuali
salvatori”».

«Aveva un costume da bagno completo, blu scuro con un grosso Topolino
a strisce bianche e rosse sulla destra. Il nuoto fu forse l’unico
sport, se così si può dire, che avesse praticato in vita sua. “No”,
raccontò, “una volta ho giocato a bocce con Camillo Sbarbaro, ma forse
mi ritirai prima della fine per paura di vincere io”».

Lui ha il doppio degli anni di Maria Luisa, a Milano si frequentano
molto, le dà il nomignolo di Volpe «che non soltanto mi regala la luce
della sua giovinezza, quanto mi restituisce la mia che non ho mai
avuta» (in una dedica). «Mi chiese di sposarlo più volte. (...) Ma
Eugenio ed io non avemmo il coraggio di staccarci da due persone (lui
da Drussilla Tanzi, lei da Elémire Zolla, ndr)».

Spaziani affezionatissima all’endecasillabo montaliano: «Alte tremano
guglie di sambuchi». Poi, una volta, passeggiando per un sentiero
Montale chiede: «Che bel fiore, che cos’è?». «Ma come sarebbe a dire
che cos’è? Eugenio, stai scherzando? Quelli sono sambuchi!». Lui la
guarda stupito: «E con questo?». Litigano. Lui si giustifica
ripetutamente: «Ma sai, la poesia si fa con le parole».

Gesti per i quali Montale non era mai preparato: togliersi i guanti,
scostare la sciarpa, cercare il portafoglio.

La sorella, Marianna, a Montale, nel 1919: «Noi, a differenza dei
parenti e degli amici che abitano in altre regioni, non abbiamo
l’abitudine di farci regali, vero? Ma fra poco compirò venticinque
anni e questa volta, Eugenio, da te un regalo lo voglio proprio. Devi
scrivere altre cinque o sei poesie. Trova il tempo, ti prego, tra il
canto e i tuoi filosofi».

Marianna la chiamava «Genio».

Spaziani: «Per caso saresti geloso?». Montale: «Sì, per tutto il tempo
che ti divide da me quando non è necessario».

Montale e Spaziani, ospiti in Francia della principessa romana Maria
de Gramont, ascoltano un suo ricordo di Proust: «Si accucciava ai miei
piedi come il gatto di casa, parlava meravigliosamente come se
raccontasse favole, e poneva mille domande strane su tutti, su tutto.
E una sera fece una cosa davvero insolita. Arriva una carrozza a
Faubourg St-Germain poco prima della mezzanotte, ne scende un giovane
uomo impellicciato, pallidissimo sotto la barba nera, con due o tre
sciarpe intorno al collo. Al maggiordomo dice che deve parlare
urgentemente con la duchessa Maria. In fretta mia alzo, infilo un
peignoir, sono molto stupita ma lo ricevo come se quella visita fosse
la cosa più naturale e gradita del mondo. Mi dice, stringendomi la
mano tra le sue: “Illustre duchessa, cara Maria, sei anni fa lei ha
partecipato a un veglione all’ambasciata d’Inghilterra… e indossava un
antico costume della corte cinese, vero? Le cronache del tempo dicono
che era di color viola, ma io dovrei sapere se era davvero viola,
tutto viola, o se aveva delle strisce, delle volute, dei ricami di
crisantemi per esempio, e se il viola fosse cupo, intenso, come quello
dei paramenti cattolici del mercoledì delle Ceneri, o sfumasse
piuttosto in gradazioni fino al quasi rosato dei tramonti normanni in
primavera…».

Spaziani: «Arenzano, comune genovese sulla Riviera ligure di ponente,
nella villa dei ricchi coniugi Rodocanachi, origine greca. D’estate,
ogni anno, invitano i più bei nomi della musica e delle lettere. Due o
tre anni, insieme ad altri, Gadda e Montale. Pranzi un po’ formali, in
abito scuro. I camerieri passano accanto a ogni ospite porgendo il
vassoio grande perché si serva da solo. Poi fanno un secondo giro.
Montale, generalmente poco interessato al cibo, non si serve mai di
nuovo. Gadda sì, abbondantemente, ma poiché Montale, nemmeno una volta
dà segni di accettare il secondo giro – i due si trovano l’uno di
fronte all’altro sul lungo tavolo – Gadda ne deriva un disagio, quasi
una vergogna e interpreta certe occhiate casuali di Montale come un
rimprovero, una critica un po’ ironica. Non è vero, ma Gadda si lascia
condizionare e finisce per mangiare poco o niente. L’uso vuole che a
pranzo finito gli ospiti passino nella saletta attigua per il caffè.
Gadda si scusa con tutti se per certe sue esigenze «peristaltiche» sia
costretto a fare due passi in giardino. Rifiuta accompagnatori,
raggiunge un’osteria e si fa servire una fiorentina al sangue con
contorno. La cosa rimarrebbe senza storia se Gadda non se ne andasse
senza pagare. L’oste, che lo conosce come ospite dei Rodocanachi,
manda un inserviente alla villa con il conto. La padrona di casa,
incuriosita e divertita, paga subito. Ma poi giorni dopo ne parla a
Gadda stesso, scusandosi se la cucina non era all’altezza della sua
fame. Gadda prima ne rimane sconvolto, poi perde la calma e
impelagandosi in mille scuse e giustificazioni accusa Montale di
quella sua gaffe, di quella «imperdonabile tragedia» perché lui non si
era mai servito per la seconda volta e lo aveva guardato fisso «con
quella sua faccia da Venerdì Santo, così inappetente, con quella sua
castità ricattatoria, offensiva, provocatoria, eccetera». L’ira non
sbollisce presto, tantomeno quando incontra Montale nel corridoio che
porta alle camere. Finisce con il cerimonioso ingegnere che aggredisce
un amico ammirato e con un uomo illustre e pacifico preso per il
bavero».

Gadda che si svegliava all’alba per andare a vedere, in un capannone,
la monta taurina.

Gadda «russa clamorosamente».

Il primo contratto stabile della sua vita nel 1948, a cinquantadue
anni, a «fare il giornalista» al Corriere della Sera.

Nel 1955 Montale ha un’improvvisa difficoltà a scrivere. Per un paio
di mesi escono sul Corriere, a sua firma, pezzi di Spaziani e
dell’americanista Henry Furst.

«Tra le cose che odio di più ci sono le collette. Quelle tasse
obbligatorie del Corriere, della Mondadori o del condominio, per
funerali o matrimoni, senza sapere chi stiamo piangendo o che cosa
regaliamo a chi. A Genova avevo evitato una trappola del genere:
bisognava fare una colletta per Sibilla Aleramo che era stata
abbandonata dal poeta Giovanni Cena. Mi padre non mi dava mai un
soldo, le dieci lire richieste erano un miraggio, e mi liberai della
cosa dicendo che, se Sibilla andava a letto senza Cena, la cosa non mi
riguardava» (Montale).

Il padre di Montale aveva rifiutato di comprare Ossi di Seppia,
edizione Gobetti del 1925 (quella che nel 2000 da Sotheby’s è stata
pagata trenta milioni di lire), perché trovava eccessiva la richiesta
di cinque lire da parte del libraio (né il figlio aveva pensato di
regalargliela).

Clizia, ovvero l’americana Irma Brandei, molto presente nella poesia
di Montale: «L’ho vista non più di una dozzina di volte, in suoi
viaggi italiani, generalmente nell’ombra di una biblioteca semideserta
perché stava scrivendo la voce che mi riguardava per un’enciclopedia
americana. Siamo stati ore fra i cipressi delle Cascine e a gli
Uffizi, ma c’era sovente quella sua amica con cui, mi dicono, convive
ancora a New York. Eravamo ai preliminari di un vero legame, ma era
ebrea, e appena in tempo Hitler la convinse per le spicce a prendere
la nave».

Nel ’52 ospite di Arnoldo Mondadori a un pranzo in onore di Georges
Simenon. Al tavolo Giuseppe Antonio Borgese, Leo Longanesi, Enzo Paci,
Gaetano Baldacci, Dino Buzzati. Montale fece appena sentire la sua
voce. Simenon raccontò del «casotto» di due stanze in giardino in cui
si ritirava in totale clausura per dodici giorni al mese («il tempo
fisiologico per scrivere un romanzo») dove nessun messaggio doveva
raggiungerlo e dove gli passavano cibo e bevande da uno sportello.

Montale: «Jean Racine, già alle sue prime tragedie considerato il
drammaturgo-poeta più importante di Francia, scrisse all’amico Boileau
una lettera traboccante di euforica gioia: “È incredibile, la penna
vola da sola, mi emoziono e mi diverto alle mie stesse trovate,
figurati che in soli due giorni ho scritto il secondo atto…”. Boileau
gli risponde: «Sei sull’orlo del baratro, attento! Vieni ogni giorno a
lezione da me. Ti insegnerò a lavorare davvero, con lentezza, fatica e
sofferenza”. Mi fa ridere Simenon con quei suoi dodici giorni di
clausura precostituita, quelli che ha il coraggio di chiamare “il
tempo fisiologico per un romanzo”! Come se il tempo, questa essenza
umbratile e retrattile, questo baratro, questo mistero insondabile e
unico per ognuno di noi, fosse l’orologio svizzero delle stazioni».

Nel marzo del 1953 Spaziani vince una borsa di studio a Parigi.
Montale si fece mandare a Parigi dal Corriere.

Regali di Montale a Spaziani nei trent’anni in cui si frequentarono:
più volte due gardenie, qualche anforetta di un profumo molto antico
di Houbigant, Quelques Fleurs.

Quando scendeva a Roma per il Senato Montale, che nel ’67 era stato
nominato senatore a vita, abitava all’Hotel Raphaël, quello di Craxi.

«Un giorno Eugenio mi telefona e mi prega di raggiungerlo all’albergo:
camminava già a fatica e non se la sentiva di venire al Babuino, dove
abitavo. Si informa subito del mio stipendio. Ero stata appena
chiamata all’Università di Messina. «In partenza avevo 145 mila lire
al mese. Ora un po’ di più, forse 160, con spese di albergo e viaggi a
mio carico». Erano gli anni economicamente più difficili della mia
vita, con disavventure familiari e difficoltà varie. Lui era forse il
più ricco tra i poeti del passato e del presente (il Nobel, il Senato,
pensioni, vitalizi, presidenze, diritti d’autore da mezzo globo).
Ripetè la cifra, si abbandonò a un lento, personalissimo calcolo
mentale e mi disse senz’ombra di sorriso: «Tutto sommato mi pare che
te la passi bene».

Montale fumò le Giubek.

Notizie tratte da: Maria Luisa Spaziani, «Montale e la Volpe»,
Mondadori, 12 euro.