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 2012  gennaio 29 Domenica calendario

Una classe politica oberata da pesanti e spinose decisioni da prendere ha un gran bisogno di proposte ragionevoli, che la aiutino ad alleggerire il carico

Una classe politica oberata da pesanti e spinose decisioni da prendere ha un gran bisogno di proposte ragionevoli, che la aiutino ad alleggerire il carico. In questi giorni ne arriva una. L’idea di Sartori di introdurre un tipo di permesso che sia inclusivo dei figli e non obblighi gli immigrati a continui rinnovi è ottima. Lo è anche perché ha un costo decisionale pari a zero: quello che suggerisce c’è già. La carta di soggiorno permanente per lungo-residenti è uno strumento di cui si sono dotati con tempi e modi diversi tutti i paesi dell’Unione Europea. E direttive dell’ Unione hanno introdotto un permesso di soggiorno comunitario per i lungo-residenti negli Stati membri, che rende anche più facile la circolazione da un Paese all’ altro. La carta di soggiorno per lungo residenti è uno strumento valido e convincente, ma può sostituire l’accesso alla cittadinanza dei figli nati o arrivati molto piccoli in Italia? Non credo, e le ragioni addotte contro i potenziali piccoli nuovi cittadini non mi convincono. Il primo argomento contrario segnala il rischio che questi bambini, in particolare quella gran parte costituita da musulmani, non si integrino mai. Divenuti maggiorenni, visto che avrebbero diritto al voto, potrebbero dar vita a sovversivi partiti islamisti. Questa tesi non regge alla luce dei fatti. La maggioranza degli immigrati in Italia viene da Paesi di matrice cristiana e, a causa dell’aumento relativo dei flussi dall’Europa dell’Est rispetto al Nord Africa, la componente non musulmana è in aumento. Ma anche guardando a un ipotetico incremento di flussi legato all’instabilità sull’altra sponda del Mediterraneo, lo spettro di gruppi politici islamici non incombe. Da anni altri Paesi europei ospitano forti minoranze musulmane, ma salvo casi marginali e politicamente irrilevanti, di partiti islamici proprio non si trova traccia. Il primo partito islamico che si è presentato in Spagna nelle elezioni locali del 2011 non ha suscitato grandi consensi. Inoltre, osservazione più rilevante, l’equazione «musulmano uguale integralista» è irrealistica. Le ricerche empiriche sulle opinioni religiose e politiche di chi viene da Paesi di cultura islamica presenta un quadro molto variegato, nel quale sostanzialmente dominano atteggiamenti pacifici. Non solo, a volte individui che arrivano piuttosto apatici sotto il profilo religioso si trasformano in convinti aderenti alla comunità musulmana e, in casi estremi, alle sue frange più pericolose, proprio come reazione alla condizione di emarginazione sociale e culturale che devono affrontare. Mettere un silenziatore ai giudizi sprezzanti contro gli immigrati in genere, e contro quelli che vengono da Paesi musulmani in particolare, oltre a costituire un richiamo alla moderazione e a un minimo di buone maniere nella comunicazione pubblica, potrebbe rivelarsi un’utile strategia di supporto all’integrazione. Un altro punto mi convince poco nelle argomentazioni usate contro riforme liberali della cittadinanza, e cioè che in assenza di cittadinanza è facile espellere i cattivi stranieri. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accettato diversi ricorsi contro l’espulsione di lungo-residenti che avevano commesso reati anche di un certo peso; in particolare hanno avuto successo i ricorsi da parte di immigrati arrivati da bambini. Gli immigrati non sono mobili Ikea che puoi restituire se non funzionano a dovere. Non è semplice rimandare nel Paese di origine dei genitori o dei nonni un ragazzo che non conosce la lingua dei suoi antenati, che è ormai estraneo a quella cultura lontana, alle abitudini di luoghi dove è stato poco o nulla. Ormai, piaccia o non piaccia, quel ragazzo è diventato un membro del Paese in cui è vissuto: di fatto se non di diritto è diventato un cittadino, purtroppo un cattivo cittadino. Persino le garanzie Ikea valgono solo per un certo numero di anni, e solo se il prodotto è stato trattato come si deve. L’obiettivo è piuttosto far sì che gli immigrati diventino buoni cittadini, trattandoli come si deve. Non credo che rendere meno difficile l’accesso alla cittadinanza dei bambini stranieri costituisca l’unico elemento di un buon trattamento, non credo sia una misura sufficiente per una loro buona integrazione, ma almeno aiuta a non provocare un numero ancor più alto di integrazioni fallite. Può darsi che si tratti di un abbaglio collettivo, ma tutte le democrazie prevedono percorsi semplificati per i nati sul territorio, e sebbene la nostra legislazione sia più restrittiva delle altre, persino il figlio di stranieri nato in Italia può chiedere la cittadinanza a 18 anni più facilmente dei genitori che volessero ottenerla in base alla durata della loro residenza. Ma se non convincono le motivazioni di chi, in materia di cittadinanza, non vuol concedere nulla, suscitano dubbi anche quelle di chi vuol dare tutto e subito. Quest’ultima è la posizione dei promotori del referendum di iniziativa popolare: la loro legge attribuirebbe la cittadinanza ai figli di immigrati che hanno un soggiorno regolare anche solo da un anno. Mi sembra poco per stabilire se quella famiglia con il suo bambino vorrà davvero vivere nel nostro Paese, né mi sembra in grado di far quagliare intorno a sé una maggioranza parlamentare. C’è spazio però per soluzioni bipartisan intermedie, già emerse, che collegano la concessione della cittadinanza a un ragionevole tempo di soggiorno regolare dei genitori o del bambino stesso. Ho sostenuto prima che facilitare l’accesso alla cittadinanza può aiutare a integrare, pur se non è l’unica determinante. Sono molti i fattori che incidono sui processi di integrazione: l’istruzione, l’apertura del mercato del lavoro, la congiuntura economica. Non sappiamo quale sia il peso specifico della cittadinanza in questo processo, perciò è difficile elaborare in questo campo quella linea di azione che Weber predilige e definisce «razionale allo scopo», cioè orientata a valutare i mezzi e la loro capacità di ottenere risultati. Ma è anche impossibile in questa materia evitare di agire con un orientamento ai valori, un comportamento pubblico in cui Weber, come Sartori, vede a ragione rischi di derive ideologiche. A mio avviso, però, in certi ambiti la coerenza ai valori è un ingrediente non solo inevitabile, ma salutare, purché la si coniughi con la razionalità strumentale, la ricerca di mezzi adeguati. Dagli orientamenti rispetto alla riforma della cittadinanza in Italia traspaiono valori di fondo, atteggiamenti emotivi distanti: una maggiore simpatia o antipatia per gli immigrati, una maggiore fiducia o sfiducia rispetto a sistemi politici e sociali aperti. Come suggerisce Weber esplicito i miei valori: confesso di appartenere al secondo gruppo. Ma non dimentichiamo la buona, vecchia, prudente razionalità strumentale. Simpatizzare per gli immigrati, auspicare una società aperta non basta, se non si individuano soluzioni capaci sia di ottenere i consensi politici necessari nell’immediato, sia di funzionare bene per il futuro. Non basta essere puri come colombe se non si è anche astuti come serpenti.