Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  gennaio 26 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza 2011, pp. 573, 22 euro

Notizie tratte da: Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza 2011, pp. 573, 22 euro.

Il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele, parlava in dialetto piemontese anche nelle riunioni coi ministri suoi. A quelli che lo esortavano a recarsi in visita ufficiale a Trastevere rispondeva, rifiutando: «Il papa lì a doi pass a sentirà. I l’hai già faine abastantsa a caul pover veii...». Al Sella che si congratulava per l’avvenuta liberazione di Roma, replicava scontento: «La staga ciutu; am resta nen aut che tireme un coulp de revoler: per l’on c’am resta de vive ai sarà pi nen da pié».

Vittorio Emanuele entrando a Roma dopo la conquista e soprattutto dopo un lungo viaggio in carrozza: «Finalment i suma». Nei libri di scuola tradotto erroneamente con «Ci siamo e ci resteremo».

Modi di dire per criticare l’uso dell’italiano rispetto al dialetto. Padovano: «Parlàr in cìcara e cascare in piatèo» (parlare in chicchera e cadere nel piattello). Milanese: «Parla come te manget” (parla come mangi). Siciliano: «Parrari cu lu squinci e linci» (cioè ricercato). Salentino: «Kunta komu t’á fattu mammata» (parla come ti ha fatto mamma).

Aneddoto marchigiano sul parlare italiano e in dialetto. Un tale torna a casa da militare e finge di non rammentare più il dialetto, in particolare il nome del rastrello; mentre cammina sussiegoso mette un piede proprio sull’attrezzo, il manico gli sbatte con violenza sul naso e il soldato sbotta: «Accidènde a lu rastellu!».

Negli anni dell’unificazione in Toscana parlavano italiano circa 400.000 persone (ciò per via della somiglianza dei dialetti con la lingua). A Roma (con scuole popolari efficienti e diffuse) erano 70.000. In tutte le altre regioni sapevano parlare italiano in 160.000 circa. La popolazione totale era di 25 milioni di individui.

Poco prima dell’unità nazionale i fratelli Visconti Venosta in viaggio nel Regno borbonico venivano scambiati per inglesi quando parlavano in italiano.

Agli inizi del Novecento gli emigranti italiani in America, provenienti da diverse regioni, preferivano comunicare tra loro usando un pessimo inglese piuttosto che l’italiano.

Per Gesuiti, sulla rivista Civiltà Cattolica nel 1868, era inutile insegnare a tutti l’italiano, essendo ineluttabile la distinzione tra «branchi di zotici contadinelli» e «giovanetti di civil condizione».

A Roma, dove il dialetto era stato da secoli bandito da clero e borghesia, dopo il ’70 fu adoperato in funzione antiunitaria («contro er buzzurume che ci appesta») nei giornali reazionari “La frusta” e “La vera Roma”.

Nel 1861 almeno la metà della popolazione infantile non andava a scuola, pur essendo obbligatorio.

All’inizio del Novecento gli analfabeti erano quasi la metà della popolazione e superavano il 69% nel Mezzogiorno. Nel 1931 erano il 20,9% (oltre il 38% nel Mezzogiorno); nel 1951 erano ancora il 12,9% ma al Sud ancora oltre il 28%. Solo nel 1959 gli analfabeti scesero al di sotto del 10% e nel 1961 risultarono pari all’8,4% della popolazione.

Relazione del ministero dell’istruzione del 1910: ci sono 60.000 aule di cui solo 21.000 «buone»: «La designazione di buone è da intendersi con molta discrezione e con criterio affatto relativo».

Dopo l’unità, uso dei maestri scolastici di correggere l’italiano che non sembrava abbastanza elegante: «la faccia della Madonna» diventa «volto», «si arrabbia» è corretto con «si inquieta», «passare le vacanze» con «trascorrere le vacanze», «vi era una grande torta» diventa «la torta troneggiava», ecc.

Nel 1871 le uniche regioni con analfabetismo inferiore al 50% erano Piemonte e Lombardia.

La formazione dell’esercito nazionale, con il servizio militare obbligatorio, indebolì l’uso del dialetto. L’uso costante dell’italiano però era un’eccezione nell’esercito postunitario anche fra gli ufficiali: soprattutto i piemontesi insistevano a usare il loro dialetto (da questo derivano termini del gergo militare come cicchetto, grana, ramazza).

D’Annunzio in guerra: «Eravamo su per il Veliki, all’assalto. I fanti mordevano l’azzurro. Ma l’azzurro mi rosseggiava. Mi pareva che tutti avessero il mio cuore per insegna vermiglia. Ed ecco, odo alla mia sinistra un accento d’Abruzzo, un suono di terra natale. Il linguaggio natale mi riaffluisce alla gola, alle labbra. Chiamo, grido, interrogo. M’è risposto. M’è dato il rude e fiero “tu” paesano... “E tu chi si’”. “I’ so’ D’Annunzio”. “Tu si’ D’Annunzie...? Gabbriele!...”. Lo stupore spalancava la bocca al piccolo fante. “E chi sti’ fa’a ècche? Vattene, vattene! Si i’ me more, nu’ è niende. Ma si tu te more, chi t’arrefà?”».

La parola “cecchino” forse d’origine dialettale: potrebbe derivare dalla pronuncia storpiata di Cecco Beppe, nomignolo di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria.

Margherita Sarfatti nel 1938 scriveva che Mussolini da giovane aveva provato «l’odio dei floridi luoghi comuni»: «Si è divertito molto a comporne con alcuni amici, il repertorio sistematico: il bastone nodoso, il sentiero tortuoso, la questione annosa e simili coppie per le quali si implorava invano il divorzio».

A sussidio di chi voleva adoperare motti e sentenze di Mussolini fu approntato il Dizionario mussoliniano. 1500 affermazioni e definizioni del Duce su 1.000 argomenti scelte e disposte in ordine alfabetico di soggetto (a cura di B. Biancini).

Da un’indagine del 1951 risulta che a quel tempo un terzo della popolazione italiana (35,42%, pari a oltre 15 milioni di individui) aveva abbandonato l’uso del dialetto come unico strumento di comunicazione, ma soltanto poco più di un sesto (18,5%, pari a 7.825.000 persone) vi aveva rinunciato completamente. Per oltre quattro quinti della popolazione (63,5%, cioè 26.846.000 persone) era d’uso normale nel parlare in ogni circostanza.

Aneddoto raccontato dallo scrittore Edoardo Scarfoglio: «Tranne i toscani , tutti gl’italiani quando si trovano a discorrere con persone che non siano del loro paese, traducono dal proprio dialetto, e il più delle volte traducono male. Ho notato ultimamente questo fatto nella propria persona di Giovanni Verga. Noi parlammo un giorno lungamente, insieme, e io notavo lo stento e l’imperfezione del suo italiano, com’egli, certamente, si scandolezzava della sconcezza del mio. Poi andammo a mangiare delle sardelle sopra una tartana messinese ancorata nel porto di Ripa Grande; e subito il Verga cominciò a parlar siciliano coi marinai con una così facile speditezza, che io dissi in me medesimo: “Diavolo! E perché costui non fa parlar siciliano i siciliani delle sue novelle?”».

Alcune delle parole in origine usate solo a Roma poi diffuse in tutta Italia: abbioccare, abbottare, abbuffarsi, abbozzare, ammappete, beccamorto, borgata, burino, bustarella, caciara, cafone, fanatico, infamità, macello, malloppo, mannaggia, menare, mondezza, pallonaro, pedalino, puzzone, racchio, scapicollarsi, scippo, scorfano, sfilatino, sganassone, tardona, zompare.

Parole e locuzioni d’origine settentrionale poi diffuse in tutta Italia: bocciare e arrangiarsi (Piemonte), brughiera, risotto, balera, paparino (Lombardia), abbinare e scuffiotto (Veneto), per via di, per filo e per segno, parlare come un libro stampato, pissi pissi, cuccare e sciacquone (Toscana).

Le parole “datore” e “lavoro” , già esistenti nell’italiano tradizionale ed equivalenti al tedesco Geber e Arbeit, si sono unite nel nesso “datore di lavoro” ricalcando il tedesco Arbeitgeber. Questo processo si chiama calco semantico.

Calchi semantici nel parlare sportivo: pallacanestro che ricalca basket ball, pallanuoto waterpolo, pugilato boxe, montante uppercut, ali da wings, centroattacco o centroavanti da centre-forward, mediani da halfbacks, ecc.

Altri calchi: ragazza squillo (call girl), arrampicatore sociale (social climber), lavaggio del cervello (brain washing).

Il poeta Vittorio Betteloni fuori d’Italia si trovò in mezzo a una platea d’inglesi per lo spettacolo teatrale di una compagnia italiana che recitava in italiano. Ogni tanto scrosciavano applausi. Betteloni, stupito dalla diffusa conoscenza della lingua, chiese spiegazioni, in inglese, alla persona che gli sedeva accanto: gli fu risposto che nessuno capiva il senso, ma a tutti piaceva «la soave sonorità della favella».

Nella costituzione democratica bolognese del 1796 si proclama l’italiano lingua ufficiale (articolo 258: «Tutti gli atti giudiziari e tutti gli strumenti devono interamente scriversi in lingua italiana»; articolo 259: «Il nuovo codice civile e criminale sarà interamente scritto in lingua italiana»). Ciò anche perché si temeva che lingua ufficiale divenisse il francese.

Il patriota Luigi Angeloni, certo che esistesse una congiura internazionale, guidata dai francesi, per snaturare la lingua italiana. Il poeta Paolo Costa consigliava: «Alza la frusta... e menala a tondo, finché le scimie, imbacuccate alla scozzese, alla tedesca, alla francese, abbiano sanguinosa la schiena».

Convinzione di Basilio Puoti: «Come gli aridi campi del settentrione sempre quasi di ghiacci ricoperti e di neve, mai produr non potrebbero quelle liete ed abbondanti messi, che biondeggiar si veggono nei pingui e fertili prati d’Italia; così similmente le aspre e tetre fantasie degli uomini di quelle dure regioni le gaie e soavi immagini ingenerar non possono che sì vaghi e leggiadri rendono sovente i versi degli italiani».

La lingua italiana secondo Leopardi: «Bruttissima e pessima per ragioni e qualità indipendenti dalla purità e dal barbarismo, cioè perché povera, monotona, impotente, fredda, inefficace, smorta, inespressiva, impoetica, inarmonica».

Italiani di lingua albanese sparsi nel Meridione: 96.000 nel 1901; 90.670 nel 1911; 80.282 nel 1921.

Altre lingue parlate in Italia. Il greco nel Salento e in provincia di Reggio Calabria (retaggio di immigrazioni bizantine o residuo dell’antica colonizzazione greca d’età classica). Dialetto francoprovenzale nel foggiano. In Sardegna, ad Alghero, sopravvive una colonia catalana (istituita nel 1354 da Pietro IV di Catalogna). Nel Molise circa 3.000 persone parlano dialetti croati. Nuclei slavi anche ai confini nordorientali d’Italia. Tedesco in Alto Adigee, francese in Piemonte.

Nel principato di Piemonte il bilinguismo era sancito da due editti (1560 e 1577) di Emanuele Filiberto di Savoja: negli atti giudiziari si usava il francese nella Savoja e nelle alte valli delle due Dore, l’italiano negli altri circondari. Il bilinguismo fu confermato dallo Statuto albertino del 1848. Negli anni dell’unificazione in Piemonte c’erano circa 104.000 persone che parlavano francese o un suo dialetto.

Alfieri scrisse in francese la prima stesura delle sue prime tragedie.

Cavour, giudicato dai maestri «distinto» in matematica, filosofia e francese, solo «più che mediocre» in italiano.

Testimonianza di Costanza Arconati: «Cavour è per natura un buon oratore, ma in italiano è impacciato. Vi accorgerete che traduce; così Azeglio; così tutti; fuorché alcuni avvocati che sono abituati a rivolgersi ai tribunali in italiano».

L’italiano che si parla all’estero: nella repubblica di San Marino; nella Svizzera italiana del Canton Ticino; in Corsica il dialetto cismontano di tipo toscano e il dialetto oltremontano sardo; nelle città istriane e dalmate; a Malta si parla un dialetto arabo magrebino influenzato dall’italiano (lingua ufficiale fino al 1934).

Nel 1861 gli italiani all’estero erano: 77.000 in Francia, 14.000 in Germania, 12.000 in Egitto, 6.000 a Tunisi, circa 50.000 negli Stati Uniti, altrettanti in Sudamerica.

Ardengo Soffici lamentava il diffondersi di usi meridionali come «assai» nel senso di «molto» e «affatto» come «per niente».

Eugenio Montale contro «l’aggressione che la lingua italiana subisce da parte dei dialetti perpetrata da radio e tv (lingua italiana in bocca meridionale».

Sul Messaggero del 15 febbraio 1955 si dichiara decaduta e morta la lingua italiana «per colpa» dei malvagi annunciatori televisivi.

Un decreto legge del 18 gennaio 1939 comminò pene severe ai locali pubblici con nomi non italiani. L’Accademia dei Lincei, allora Accademia d’Italia, nominò una commissione per esaminare le parole esotiche: si decretò che si potesse dire sport, tennis, ciac, picnic. Bocciati: festival, da sostituire con festivale, parquet (meglio parchetto), gin (gineprella), cognac e brandy (ratafià), cocktail (arlecchino).

D’Annunzio voleva usare «arzente» al posto della parola «cognac».

Sostituti di bar: bettolino, quisibeve, taberna potoria, ber, barro, barra, bara, mescita, liquoreria, taverna.