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 2011  settembre 22 Giovedì calendario

«INDIAN HIGHWAY» AL MAXXI, UN’IMMERSIONE DI COLORI E FORME

La visita alla mostra «Indian Highway», inaugurata ieri al Maxxi e aperta al pubblico da oggi al 29 gennaio prossimo, è un’ immersione nei colori, nelle forme, nei suoni e negli odori. Ma, per fortuna, senza quegli aspetti venati di folklore o di esotismo che di solito si rilevano nelle esposizioni che riguardano il continente indiano. Qui ci sono una sessantina di opere realizzate da trenta artisti contemporanei e quattro installazioni, che compongono una panoramica variegata e molto interessante sulla creatività di un subcontinente che siamo abituati a conoscere per stereotipi. Costata trecentomila euro, la mostra ha potuto essere realizzata anche grazie a un nuovo sponsor (il gruppo JTI) che ne ha pagati la metà, come ha fatto sapere il presidente Pio Baldi, preoccupato per i tagli del ministero. Nella prima parte del percorso si incontra un gruppo di artisti che si sono ispirati al tema delle megalopoli espanse in un caos crescente fino alla deflagrazione. Si cammina accompagnati dall’ opera sonora dei Desire Machine Collettive, che hanno registrato i rumori della foresta sacra Law Kyntang, dove si mescolano grida di uccelli, frinire di insetti, gracidare di rane. Ed ecco il camion scintillante di Valay Shende, ricostruito a grandezza naturale con una specie di tessuto fatto di piccole sfere in acciaio inossidabile. Giulia Ferracci che ha curato la mostra, racconta che sono stati realizzati uno per uno, con meticolosità ossessiva da Shende. Di sfere inox sono fatti anche gli uomini, le donne e i bambini che stanno seduti sul cassone aperto del camion, con lo sguardo fisso nel vuoto durante il viaggio quotidiano verso il luogo di lavoro. Viste da lontano, dalle terrazze superiori del Maxxi, quelle figure diventano stranamente opache e grigie, simili alle forme umane fossilizzate dalle ceneri bollenti di Pompei. In acciaio rilucente è realizzata anche la grande installazione (lunga quattro metri e alta tre) di Subodh Gupta, scultore tra i più quotati alle ultime aste, che tre anni fa aveva presentato alla Tate Britain un sensazionale fungo atomico composto di pentole, vassoi, mestoli e padelle. Gli stessi utensili usati per questo pannello che vuole essere «un’ icona delle aspirazioni della classe emergente indiana». Tra le realizzazioni più suggestive, la Darkroom costruita con barili di catrame, asfalti e specchi, che rivela all’ interno - a chi si introduce carponi vincendo il senso di claustrofobia - un cielo punteggiato di stelle. E la poetica installazione di Sumakshi Singh, che ha ricostruito in uno stretto spazio di passaggio una sorta di galleria mistica che mescola video con frammenti di affreschi del duomo di Assisi a strani minuscoli oggetti in gesso e argilla, muschio e metalli vari. Sensualissima la trapunta di Sakshi Gupta (donna, solo omonima dell’ altro Gupta), fatta di ciglia umane in metallo e vere piume di pollo. Inebriante la foresta di bastoncini d’ incenso di Hemali Bhuta, che avvolge nel suo profumo tutti gli spazi del Maxxi. Al centro della mostra, il «Rape of India» di Husain, considerato il Picasso indiano, e il maestro di tutte le generazioni successive di artisti, nato nel 1915 e scomparso a giugno. Il grande dipinto, composto da due pannelli separati, fa riferimento alla serie di attacchi terroristici avvenuti a Bombay il 26 novembre del 2008.
Lauretta Colonnelli