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 2011  ottobre 05 Mercoledì calendario

INTERVISTA A MARISA MONTI RIFFESER


«Se un bambino di due anni butta in terra un vasetto di marmellata e lo rompe, le madri di oggi sorridono. Io invece pretendo che raccolga la marmellata con il cucchiaino e butti i cocci di vetro nella spazzatura, stando attento a non farsi male. E stia tranquilla, non succederà di nuovo».

Maria Luisa Monti Riffeser, detta Marisa, azionista di maggioranza e presidente del gruppo Poligrafici Editoriale (del network QN – Quotidiano Nazionale – fanno parte Il Resto del Carlino di Bologna, La Nazione di Firenze e Il Giorno di Milano), sulla disciplina ha le idee chiare. E alla Bagnaia, la tenuta di famiglia a sud di Siena, i suoi nipoti – sette, tra i 18 e i 25 anni, tutti educatissimi – le girano intorno mentre lei, energia da ventenne e rigore da donna d’altri tempi, impartisce ordini. Il piglio l’ha ereditato dal padre Attilio Monti, scomparso nel 1994, un romagnolo pragmatico – soprannominato «Artiglio» – che da fabbro, tra il Fascismo e il Dopoguerra, diventò petroliere, industriale e infine editore.
Marisa è appassionata di equitazione, e ogni anno, a fine settembre, organizza il Concorso Ippico Internazionale. Lo organizza proprio qui alla Bagnaia, il suo fiore all’occhiello, la struttura a cui lavora da dodici anni: in 1.100 ettari di terreno, con due borghi medioevali restaurati, ha creato alberghi, centro congressi, una Spa di acqua termale e, dai primi di giugno, un campo da golf da 18 buche che sarà arricchito da ville lussuose.
Figlia unica amatissima, non ha avuto una vita tutta rosa: poco più che quarantenne, e con tre figli, rimase vedova del marito (il gardenese Bruno Riffeser, scomparso in un incidente con arma da fuoco nel 1976). Qualche acciacco – tre interventi alla schiena a fine anni Novanta – non le ha impedito di continuare a occuparsi, oltre che della tenuta, del gruppo editoriale, assieme al figlio Andrea Monti Riffeser.

Tempi duri per i giornali. Come li vive il vostro gruppo?
«Della gestione operativa si occupa mio figlio, io sono solo il Presidente. Andrea è un ragazzo formidabile, non ho voluto “castrarlo” con la mia presenza in azienda. Poi, certo, le decisioni importanti le prendiamo insieme».
Quindi?
«I giornali vivono di pubblicità e in tempi di crisi, purtroppo, la prima cosa che le aziende fanno saltare è quella. Lo trovo un errore strategico: chi smette di farsi pubblicità va fuori dal mercato».
Ha mai pensato di vendere?
«Mio padre diceva: “Vendi tutto, Marisa, ma non i giornali”».
Perché?
«Lui veniva dal petrolio, ma della carta stampata si innamorò follemente. Anche se non abbiamo mai usato i giornali per il potere».
Siete rimasti in pochi a fare gli editori puri.
«Ne sono orgogliosa. Essere liberi è la più grande forza che si possa avere. Dopo 12 anni non ho ancora tutti i permessi per Bagnaia, ma non ho mai pagato nessuno. La nostra è una delle poche famiglie industriali in Italia a non essere stata toccata da Tangentopoli: voglio poter guardare la gente negli occhi. A volte leggo su certi giornali cose per cui personalmente non avrei il coraggio di uscire di casa».
Chi sceglie i direttori, lei o suo figlio?
«Insieme. Io mi alzo la mattina alle 4 e leggo di tutto. Oggi il mondo va così veloce che, se non sei aggiornata, sei fuori».
Chi è stato il suo direttore preferito?
«Giovanni Spadolini (al Resto del Carlino dal 1955 al 1968, ndr) è stato un grande. Ma a me i direttori piace cambiarli, non dovrebbero stare al loro posto per più di cinque anni. Perché è un mestiere che usura: troppe pressioni politiche, coltellate alle spalle, dopo un po’ non ­riesci più a essere lucido, equilibrato. E io dico sempre che i miei giornali non devono esprimere preferenze politiche».
Quindi come giudicò la decisione di ­Paolo Mieli di schierarsi, da direttore del Corriere della Sera, per il centrosinistra?
«Una grandissima cavolata. Fossi stata il suo editore, l’avrei mandato via subito».
Qualcuno obietterà che i vostri giornali simpatizzano per il centrodestra.
«È una leggenda. Se lo chiede ai miei lettori, rimarrà sorpresa dalle risposte. Io dico sempre che non è questione di colori ma di uomini».
Eppure suo padre nel ’71 licenziò Enzo Biagi da direttore del Carlino, e si disse che la colpa di Biagi fosse stata quella di favorire un gruppo di giornalisti comunisti.
«Biagi era in gamba ma faceva un po’ quello che voleva, e mio padre non amava chi si prendeva troppa libertà».
Mi dice che cosa pensa di Berlusconi?
«L’accanimento nei suoi confronti è esagerato. In questo modo si blocca un ­Paese».
Potrebbe dimettersi lui.
«Ma non esistono alternative. Chi mettiamo a governare?».
Le cose che stiamo leggendo non la disturbano?
«È difficile dimostrare che sono vere, e in ogni caso si tratta di questioni molto private. Ma l’ho sempre detto a mio figlio, e prima a mio marito: nella vita si può fare tutto, però ci vuole classe. Il fatto è che il potere dà alla testa, guardi Strauss-Kahn. Pensi di essere infallibile e in realtà sei più vulnerabile, perché sei salito troppo in fretta, senza guardare la strada».
Che errori ha commesso, salendo, Berlusconi?
«Non ha cresciuto nessuno che potesse succedergli, e si è contornato di gente sbagliata. Da noi in Italia è tutto permesso, invece chi sbaglia deve pagare».
Ha mai pensato di fare politica?
«Fanfani, amico di famiglia, diceva sempre a papà: “Tua figlia dovrebbe fare politica”. E lui: “Sì, ma poi facciamo finta di non conoscerla, con le sue idee giustizialiste”».
Come costruì la sua fortuna Attilio Monti?
«Nel 1925, a 19 anni, iniziò a vendere il petrolio come agente dell’Agip. Costruì un deposito costiero che durante la guerra venne requisito dai tedeschi e distrutto. La sua fortuna fu quella di aver chiuso in cassaforte una licenza per una raffineria. Finita la guerra, andò a Roma a fare anticamera dai politici, e ottenne di poterla usare».
C’è chi sostiene che abbia fatto fortuna per aver simpatizzato con il regime: aveva fatto società con due gerarchi, Galeazzo Ciano ed Ettore Muti.
«Maldicenze. È vero che papà era grande amico di Muti, ma non ha mai avuto la tessera del partito».
Che padre è stato per lei?
«Protettivo, severo: fino ai 18 anni non potevo uscire di casa. Ma gli devo molto perché non mi ha mai viziata. Da bambina sognavo di fare la sua segretaria, ma lui mi diceva: “Impara a essere una brava donna di casa”. Romagnolo, vecchio stampo, non mi ha fatto fare l’università, mi sono fermata al liceo classico».
Suo marito come lo conobbe?
«A una festa. Lui aveva una ditta di impalcature a Milano, ma era gardenese: quando ci fu il Mondiale di sci, fece costruire la funivia e gli impianti al Ciampino. Ancora oggi l’albergo e il ristorante a metà della Saslong sono nostri, li gestisce il mio figlio minore».
E dopo quell’incontro?
«Il fidanzamento con Bruno non durò neanche sei mesi. Io giravo sempre con due guardie del corpo, non mi era consentito stare sola con lui. Con il matrimonio, invece che due siamo diventati quattro. Papà gli affidò subito il ramo del petrolio. Io e mia madre tutte le sere andavamo a prenderli in ufficio e uscivamo a cena: papà diceva che se si mangia a casa poi si va subito a letto, invece lui adorava passeggiare, andare al cinema».
Come superò la morte di suo marito?
«Prima mi chiusi qui alla Bagnaia, non mi interessava più niente. Poi decisi di andare a vivere a Marbella, in Spagna: lì nessuno sapeva chi fossi, nessuno mi avrebbe avvicinata per motivi d’interesse. Vissi otto anni da sola: i figli studiavano in Svizzera, era l’epoca dei rapimenti. Un giorno mi telefonò papà: “È ora che torni a casa e ti occupi delle tue cose”. Gli risposi che non ci pensavo neanche. “Vieni”, insistette, “ti prendo una rivista, potresti essere un buon direttore”. “Papà, non so niente di giornali”. Ma lui era irremovibile: “Torna”. E io tornai».
Che cosa fece?
«Ho sempre avuto la mania della moda, gli proposi di aprirmi una boutique. E lui: “Ma quale boutique, sono le mantenute che hanno le boutique”. Finché mio figlio fondò Cavallo, una rivista di equitazione, e io, per la fiera a Verona, mi inventai polo, felpe, bauli rivestiti con i tessuti della mia scuderia. Tutte cose che oggi vendo in showroom nel mio palazzo, a Bologna. Anche le camere di Bagnaia sono arredate con stoffe disegnate da me, e oggetti che ho personalmente scelto».
Ha investito tanto in questa tenuta.
«Dopo la morte di mio padre, volevo ­creare un punto di riferimento per la famiglia. E ho coinvolto i miei nipoti, volevo che capissero che niente si ottiene senza fatica: agli eredi bisogna lasciare principi, non soldi».
Nei giornali quando è entrata?
«Sono diventata presidente della Poligrafici alla morte di papà. E c’è un giornale che avrei voluto fare, tornata dalla Spagna: la versione italiana di Hola. “Figurati se ci mettiamo in concorrenza con gruppi come Rusconi”, mi dissero quando ne parlai in riunione, “non siamo all’altezza”. “Non è che non siamo all’altezza”, risposi, “è che siamo un gruppo editoriale maschilista”. Era giusto produrre qualcosa anche per le donne».
Non si è mai risposata.
«Avevo avuto tre figli, un matrimonio stupendo: perché cercare altro? Non credo agli uomini e a quello che raccontano».
A suo marito aveva creduto.
«A vent’anni ci credi. Non avrei tollerato pettegolezzi, e i miei figli un altro matrimonio non l’avrebbero accettato».
I figli a volte preferiscono che un genitore ritrovi la serenità, piuttosto che vederlo solo e triste.
«Non ero triste. I grandi dolori si devono superare da soli, nessuno ti può aiutare. E non mi piace essere compatita, quello sì che è un coltello nella piaga».
Mai più innamorata?
«Mai. Mio marito è stato il primo, e l’unico».