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 2011  ottobre 05 Mercoledì calendario

INTERVISTA A KOBE BRYANT


Lo chiamano il Signore degli Anelli perché ha vinto cinque titoli Nba, con i Los Angeles Lakers. Ma il soprannome preferito da Kobe Bryant è un altro: Black Mamba, come Uma Thurman in Kill Bill.

«Più che un soprannome è il mio alter ego», mi spiega in perfetto italiano mentre chiacchieriamo all’Hotel Hilton di Roma, al termine di una «due giorni» spesa a Milano e a Roma tra bagni di folla e impegni promozionali. «Quando non gioco, sono un tipo a cui piace ridere e scherzare, come adesso. Ma appena scendo in campo divento un’altra persona, il Black Mamba. È un po’ quello che succede a Clark Kent quando entra in una cabina telefonica».
Anche il suo nome, Kobe, ha una storia interessante. Ho letto che ha a che fare con la prelibata carne giapponese.
«Tutto quello che so è che i miei genitori erano in un ristorante, hanno guardato un menu e si sono detti: “Bel nome, Kobe”».
Suo padre Joe ha giocato qui da noi dal 1984 al 1991, quindi lei ha vissuto in Italia dai 6 ai 13 anni.
«Di Rieti, Reggio Calabria e Pistoia ho ricordi confusi perché ero troppo piccolo. Invece di Reggio Emilia ho memorie molto vivide; ho ancora molti amici lì, con cui mi sento spesso. E poi è in Italia che ho imparato ad amare il basket: la prima pallacanestro che ho conosciuto, che ho visto dal vivo, è stata quella italiana».
C’è qualche giocatore che ricorda, in particolare?
«Ce n’era uno che mi piaceva molto, Alessandro Fantozzi, giocava a Livorno. Uno fortissimo era Mario Boni, che giocava col Montecatini. E poi, certo, Mike D’Antoni e Dino Meneghin… Amo il basket italiano, ed è qui che ho iniziato a giocare. In Italia mi hanno insegnato i fondamentali di questo sport. Quando sono tornato in America, a 14 anni, tutti gli altri ragazzini che avevano imparato nei parchi giochi sapevano fare un sacco di trucchetti, come i palleggi dietro la schiena, ma non avevano i fondamentali. Io, invece, che li avevo, a imparare quei trucchi ci ho messo poco».
A 17 anni è diventato professionista, senza passare per il college. Come mai questa scelta poco comune?
«Volevo imparare subito dai migliori al mondo. Sapevo già che sarei diventato un giocatore della Nba. Così, non ho perso tempo. Mi sono buttato subito tra i grandi».
Nel 1999 a Los Angeles arriva Phil Jackson, il Buddha degli allenatori, carico dei sei trofei vinti con i Chicago Bulls di Michael Jordan. So che vi dava da leggere dei libri.
«Non ne ho mai letto uno! Mai! Lui lo sa e ci scherziamo sempre su. Comunque Phil è un grande: lo zen applicato alla pallacanestro».
Anche lei, quanto a concentrazione, non se la cava male. È considerato uno dei giocatori più «letali» nella storia della Nba grazie alla capacità di decidere una partita negli ultimi secondi. Ancora oggi, in quei momenti palpitanti, riesce a pensare solamente al gioco, a stare dentro la partita, senza mai pensare alle statistiche e ai record?
«In America, quando sei un giocatore alle prime armi ti insegnano che non devi pensare alle statistiche individuali ma solo al bene della squadra. Invece alla fine della carriera tutti guardano solo alle statistiche, alle percentuali di tiro, ai rimbalzi… Non entri nella Hall of Fame se non hai fatto certi numeri. Io, comunque, sono sempre stato un giocatore che non ha mai giocato per le statistiche. A 20 anni potevo lasciare i Lakers e andare a giocare in una squadra dove sarei stato l’unica stella indiscussa e segnare miliardi di punti. Ma ho preferito rimanere a Los Angeles e giocare al fianco di un grande dal quale imparare, come Shaquille O’Neal…».

Di Kobe è noto il suo amore per la storia del basket, di cui ormai fa parte. In questo è simile a un altro numero uno dello sport, Roger Federer, che oltre a essere un campionissimo del tennis è un vero e proprio amante del gioco e della sua tradizione.

«Nel basket è già successo tutto. Se ne conosci la storia è un vantaggio, perché magari stai vivendo in una situazione in cui si è già trovata un’altra squadra e puoi scoprire da loro come hanno fatto a vincere. Ecco perché leggo e studio moltissimo la storia del basket. Questa cosa, per esempio, mi ha aiutato contro i Boston Celtics nella finale del 2010, quando siamo andati sotto 3 partite a 2. 
Ricordo che siamo rientrati negli spogliatoi e tutti erano sconsolati e dicevano: “Basta, è finita”. Io ho chiesto un attimo di silenzio e ho detto: “1988, i Lakers erano sotto contro i Celtics, sono tornati a casa e hanno vinto due partite di fila, prendendosi il titolo Nba. Mi volete dire che loro lo hanno fatto e noi non possiamo? Torniamocene a Los Angeles, vinciamo la prossima e poi vinciamo ancora”. E così è stato».
A proposito di storia, in molti la paragonano a un altro mito dei Los Angeles Lakers, Magic Johnson.
«Più che Magic, che ammiro tantissimo, quello che mi ha aiutato di più è stato Michael Jordan. Soprattutto nella prima fase della mia carriera, ci sentivamo spesso: mi ha insegnato molto. Le nostre personalità sono simili, mentre Magic ha un carattere diverso».

Solo adesso, nonostante siamo seduti da un pezzo uno di fronte all’altro, noto che sulla maglietta di Kobe c’è scritto, molto in grande, «Black Mamba». Per mia fortuna, non ho davanti il terribile supereroe, ma un ragazzo dai modi gentili e dal sorriso contagioso. Gli chiedo di Obama, con cui ha giocato.
«È un grande appassionato di basket, Obama. Anche se purtroppo tifa per i Chicago Bulls…».
Dicono che sul parquet non se la cavi male. Ma, lei che ci ha giocato, mi dica: è consentito fare fallo sul Presidente?
«Nooo! Ecco perché io mi sono messo in squadra con lui: mi piace vincere sempre, e lui non lo tocco!».

Siamo ai saluti finali. E non posso non chiedere a Kobe delle voci insistenti che lo vogliono vicino alla firma di un contratto con una squadra italiana per giocare tre mesi nel nostro campionato; quello Nba, in America, è infatti fermo per il lockout, il blocco delle attività agonistiche a seguito dello sciopero dei giocatori.

«Sì, è un vero casino. Il lockout finirà, ma non so dire quando, e noi giocatori non possiamo fare altro che avere pazienza e aspettare».
Nel frattempo, c’è l’ipotesi di giocare dieci partite nella Virtus Bologna.
«È vero. È una seria possibilità. È sempre stato un mio sogno giocare in Italia.
Al momento ci sono cinquanta possibilità su cento che io finisca a giocare a Bologna sino al termine del lockout (al momento della ripartenza di Kobe per gli Stati Uniti, il 30 settembre, il contratto da 3 milioni e 300 mila dollari con la Virtus non era ancora stato depositato, ndr)».
Da poco ha compiuto 33 anni. Ha già iniziato a pensare a che cosa farà «da grande»?
«Devo pensarci. So bene come il ritiro dallo sport professionistico sia per molti atleti un vero e proprio trauma… Io sto cercando di capire quale lavoro mi piacerebbe fare quando non giocherò più a basket. Forse qualcosa che ha a che fare con il marketing e la pubblicità… Però mi piacerebbe anche lavorare con i ragazzini, insegnare loro la pallacanestro. Fare l’allenatore no, però: mi manca la pazienza».
Le sue due figlie hanno nomi italiani.
«Italianissimi: Natalia Diamante e Gianna Maria».
Qual è l’insegnamento che spera di aver dato loro attraverso la sua professione?
«La determinazione. Nello sport spesso si perde, ogni tanto si gioca male. Non bisogna mai abbattersi, ma dirsi, convinti: “La prossima volta farò meglio”».