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 2011  ottobre 05 Mercoledì calendario

UNA TOGA HA SMONTATO IL MITO DEI PM


No, non ha fatto una brutta figura il sistema giudiziario italiano assolvendo in secondo grado Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Ogni cittadino è innocente fino al terzo grado di giudizio. E tre gradi ci sono perché le verità processuali possono essere smontate in appello e riformate in Cassazione. Questa è civiltà giuridica, non barbarie. E la legge italiana prevede risarcimenti per chi possa avere subito ingiusta detenzione. Non è questa assoluzione che getta ombre sul sistema giudiziario italiano. Anzi, in qualche modo il processo di appello resterà una pietra miliare, per dimostrare che anche in Italia un minimo di civiltà giuridica esiste. Perché la Corte d’appello di Perugia presieduta da Claudio Pratillo Hellmann ha osato quel che un’aula di tribunale quasi mai tenta: rimettere in discussione non una sentenza, ma l’istruttoria stessa del procedimento. Ordinare la perizia sulle presunte prove scientifiche raccolte da pm e polizia scientifica durante l’istruttoria (ipotesi rifiutata dalla corte di primo grado ) ha significato mettere davvero sullo stesso piano le parti nel processo. Così dovrebbe essere sempre. Così accade purtroppo in rarissimi casi. A Perugia è accaduto, ed è una festa per la giustizia al di là dei contenuti della sentenza che comprenderemo meglio quando saranno pubbliche le motivazioni.
Da anni in Italia il processo è diventato un inutile orpello, la coda necessaria e fastidiosa di una giustizia che si è già celebrata tutta nella fase istruttoria, in cui il pm e spesso addirittura la polizia giudiziaria è unico protagonista della giustizia: scrive l’accusa e la sentenza di fatto allo stesso tempo. Al massimo un tribunale può ratificare, e se questo non avviene nell’immaginario collettivo (con gran colpa di noi giornalisti), è solo per la capacità di avvocati difensori nell’aggirarsi fra vari busillis.
Felice giorno, dunque, quello dell’assoluzione di Amanda e Raffaele, perché restituisce dignità alla giustizia italiana. Certo, facendo giustizia porta con sé inevitabile ingiustizia: quattro anni di carcere a due innocenti sono tanti. Amanda ne avrebbe dovuto fare tre comunque per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba (reato confermato in appello) e ha ancora un processo in corso per calunnia nei confronti degli otto agenti accusati di maltrattamenti nei suoi confronti. Quei quasi quattro anni di carcere forse le sarebbero comunque toccati. Per Raffaele invece tutti e quattro gli anni di ingiusta detenzione dovranno essere risarciti se la Cassazione confermerà il dispositivo di secondo grado. È amaro, ma l’errore giudiziario è ammesso in un ordinamento con tre gradi di giudizio come è quello italiano.
Forse è stato anche grazie alla presenza delle tv di tutto il mondo che dopo molti anni abbiamo reso evidente a tutti che atti dei pm e della polizia giudiziaria non sono Vangelo, anzi. Un inquirente può partire da una ipotesi investigativa, può ricondurre tutti gli elementi indiziari a quella ipotesi, dare loro una forza che altrimenti non avrebbero. Ci sta pure, a patto che resti evidente che quella è una ipotesi, una pista, non un verdetto.
Il tema vero della giustizia italiana è proprio quello: la scarsa, scarsissima qualità e professionalità degli inquirenti. Da anni hanno smesso di imparare a lavorare. Ti guardano in faccia, e non gli piaci. Ordinano centinaia di intercettazioni, non le leggono nemmeno tutte, prendono qualche parola qui e qualche parola là per ritagliare in quel mare una sagoma il più simile possibile a quel che hanno in testa. Fanno filtrare sapientemente particolari per costruire un’opinione pubblica che la pensi come loro. Non fanno un riscontro reale che sia uno. Non provano nemmeno a verificare con lo stesso materiale un’ipotesi diversa. Insomma, non lavorano più. Come – lo dico con amarezza essendo innamorato del mestiere che faccio – non fanno più il loro lavoro i giornalisti di inchiesta. Si prendono il pacco dono del magistrato, non arrivano mai una volta prima loro dei pm, e la merce che ottengono se la scambiano pure fra loro. Una lavoro da postini, non da inquirenti e giornalisti. Il processo si celebra così, ben prima di entrare in un’aula di giustizia. E una volta in tribunale al massimo si ascolta la lettura delle carte, i testi pro e contro quella lettura, ma raramente si esce dal solco tracciato dalla pubblica accusa, quasi mai si ordina di rifare l’istruttoria come è avvenuto a Perugia.
Chi ha accusato Amanda e Raffaele di omicidio questa volta non aveva intercettazioni preventive da utilizzare (le poche successive sono state diffuse sapientemente). Non ha trovato una prova sola né logica né di fatto per accusare di assassinio i due ragazzi. Quelle scientifiche si è dimostrato come fossero raccogliticce e nemmeno buone per indizi. Peraltro sarebbe stato strano non trovare tracce del dna di Amanda nella casa in cui viveva. Ma non ha significato nulla per gli inquirenti non trovarne né della ragazza americana né di Raffaele nella stanza del delitto (dove erano ampie le tracce di Rudy Guede, che di quel delitto è colpevole con sentenza passata in giudicato). Senza intercettazioni e senza prove, su cosa si è basata l’istruttoria? Sulla personalità degli imputati. Pura barbarie giuridica. Utilizzata ampiamente sui media, decisiva nel processo di primo grado. Raffaele era di ghiaccio. Amanda era disinibita sessualmente. Fumavano spinelli, quindi erano anche un po’ drogati. È stata utilizzata ogni arma possibile per costruire il profilo genetico dell’assassino. Vecchie foto messe su social network, pensieri scritti per sms ed e-mail. Al processo di primo grado è stato ammesso come teste di accusa il dirigente della sezione perugina sui crimini violenti, Edgardo Giobbi. Che lanciò una accusa da fare rabbrividire: «Quando diedi ad Amanda Knox durante la perquisizione a casa i copriscarpe lei fece la mossa: ancheggiò con il bacino e disse opplà!». Le agenzie titolarono così: «Meredith, investigatore: Amanda fece la mossa». Sicuro indizio di reato, e ora sappiamo perché l’Italia incarcerò anche Sophia Loren. Una poco di buono, che si concedeva a tanti ragazzi e che faceva la mossa, in carcere ballava pure e cantava Let it be. Una sicura assassina. Come il glaciale Raffaele, che non tradiva mai emozioni come fa chi nasce killer.
Tutto questo, e molto di più, abbiamo vissuto durante la fase istruttoria e purtroppo anche nel processo di primo grado che scelse di non rimettere in discussione le indagini. Ma a due anni da quella sentenza abbiamo scoperto che c’è ancora un giudice a Perugia. Non c’è che da rallegrarsene.

Franco Bechis