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 2011  ottobre 05 Mercoledì calendario

“Rita, Maria ed Eva, i geni che l’Italia ha ignorato” - Quant’è difficile essere donne e fare scienza in Italia

“Rita, Maria ed Eva, i geni che l’Italia ha ignorato” - Quant’è difficile essere donne e fare scienza in Italia. Lo spiega nel suo «Scienziate d’Italia» (Donzelli) Elisabetta Strickland, professore di Algebra all’Università di Roma Tor Vergata e, nel 2007, prima donna a essere nominata vicepresidente dell’Istituto nazionale di alta matematica. Una persona, quindi, che di soffitto di cristallo se ne intende e che ha deciso di raccontare 19 storie esemplari di italiane che hanno dato contributi decisivi alla scienza del XX secolo. Una svolta epocale, seppure non riconosciuta e pagata a caro prezzo, se si pensa che, ancora nell’ Ottocento, si contava appena un centinaio di donne dedite alle scienze, per non parlare delle appena 20 del Sei e del Settecento (lo stesso numero dell’epoca antica), delle 10 del Medioevo e, nonostante fosse l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, di due secoli come il Quattro e il Cinquecento, nei quali non si annovera alcuna figura conosciuta di scienziata. Professoressa Strickland, qual è stato il reale contributo delle scienziate al progresso scientifico italiano? «Notevole, tenendo conto che hanno lavorato spesso in condizioni difficili, in tempi di guerra, durante le persecuzioni razziali e scontrandosi con stereotipi di genere e pregiudizi. Sappiamo bene che una sola donna italiana è stata insignita del Premio Nobel in area scientifica: Rita Levi Montalcini. Ma un consistente numero di scienziate ha raggiunto negli ultimi 150 anni risultati importanti». Quali sono state le figure di scienziate italiane più importanti del Novecento? «Penso che sia molto difficile rispondere: la scienza è estremamente variegata e anche una semplice equipollenza dei contributi non mi sembrerebbe affrontabile. Certamente le due scienziate più note, Rita Levi Montalcini e Margherita Hack, meritano tutta la fama che hanno: la prima per la scoperta di una sostanza che promuove lo sviluppo delle cellule nervose, il “nerve growth factor”, la seconda per le sue scoperte sul fenomeno della “super-ionizzazione”, che è uno dei risultati più importanti nella spettroscopia stellare dell’ ultravioletto, e per quelle riguardanti il gas interstellare. Ma direi che non è stata da meno Rita Brunetti, la fisica milanese che nel 1929 ipotizzò il “quenching” del momento angolare orbitale, e per questo va considerata tra i precursori della teoria del magnetismo di John van Vleck, dell’ Università di Harvard, insignito nel 1977 del Premio Nobel». Altri nomi che sono stati ingiustamente messi in secondo piano? «Io ho grande stima di Maria Bianca Cita Sironi, geologa milanese nata nel 1924, allieva di Ardito Desio. Le dobbiamo un notevole arricchimento delle conoscenze nel campo della geologia marina, che sono alla base delle moderne concezioni sulla mobilità dei fondi oceanici. Ed è molto bella anche la figura di Eva Giuliana Mameli Calvino, madre di Italo e prima donna in Italia a conseguire la libera docenza in botanica, nel 1915». Come è arrivata a scegliere questa serie di storie e non altre? «Adesso ho citato solo qualche nome: io stessa ho avuto molte difficoltà nello scegliere alcune scienziate da raccontare nel libro, tanto è ampio il ventaglio dei contributi». Quanto è ancora difficile da superare il soffitto di cristallo per le donne che studiano le scienze «dure »? «È ancora piuttosto spesso. Le donne rappresentano circa il 50% del totale dei laureati in discipline scientifiche, ma le ricercatrici effettive sono all’incirca un terzo del totale dei ricercatori e la percentuale decresce man mano che si sale nella gerarchia professionale, dato che solo un quinto dei professori è di sesso femminile. Le donne tendono a partecipare attivamente alla ricerca nei primi anni della carriera, mentre con l’avanzare dell’ età le ambizioni professionali lasciano il posto a priorità di tipo familiare. Un secondo ostacolo riguarda l’atteggiamento auto-discriminatorio delle donne stesse nei confronti del loro ruolo professionale: si ritiene che le donne non siano in grado di raggiungere le posizioni di maggiore responsabilità, perché meno disposte degli uomini a combattere per la propria carriera». Che cosa si può fare per contribuire al superamento dei pregiudizi e valorizzare meglio le tante donne che oggi si occupano di scienza? «L’osservazione dei fatti suggerisce almeno due linee programmatiche per promuovere la partecipazione femminile a tutti i livelli nella carriera scientifica». Quali sono? «Un primo intervento dovrebbe riguardare la formazione dei futuri scienziati, che non può limitarsi agli aspetti tecnici, ma deve prendere in considerazione anche componenti psicologiche e comportamentali: si devono, per esempio, incoraggiare le giovani ricercatrici a mostrare maggiore determinazione e un atteggiamento più positivo nei confronti di se stesse e del proprio ruolo professionale per sostenere più facilmente la competizione maschile. In secondo luogo le politiche di genere non dovrebbero limitarsi alle seppur utili misure volte a conciliare al meglio la carriera con gli impegni familiari, ma devono anche superare alcune visioni tradizionali della carriera e della suddivisione dei ruoli».