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 2011  ottobre 04 Martedì calendario

FIAT E INDUSTRIALI, UNA STORIA DI STRAPPI

Non è un fulmine a ciel sereno l’annuncio dell’uscita della Fiat dalla Confindustria, in quanto era nell’aria già da tempo. D’altra parte, non è la prima volta che ciò avviene, dato che i rapporti fra l’impresa torinese e l’Associazione imprenditoriale sono sempre andati a corrente alternata.

All’inizio, lo scontro più clamoroso avvenne nel settembre 1920, al culmine del "biennio rosso". Si era nel mezzo dell’occupazione delle fabbriche, che sembrava preludere a un moto rivoluzionario. E per Giovanni Giolitti, allora presidente del Consiglio, l’unico appiglio a cui afferrarsi affinché la situazione non precipitasse, fu di proporre il controllo sindacale sulla gestione delle aziende. Ma se Giovanni Agnelli condivise questo progetto e anche il presidente della Confindustria Ettore Conti finì per sottoscriverlo sia pur "obtorto collo", dello stesso avviso non si mostrò il Consiglio nazionale dell’Associazione né tantomeno l’Assemblea degli industriali, che sconfessò il suo presidente.

A sua volta Agnelli venne trattato come un appestato dal direttivo dell’Amma, l’Associazione degli industriali metalmeccanici dove aveva dettato legge sino a quel momento. E la sua amarezza era poi cresciuta quando – dopo lo sgombero delle officine – era rientrato nel suo ufficio tappezzato da un ritratto di Lenin con falce e martello: tanto che, non ritenendo più governabile la sua azienda, aveva proposto su due piedi alla Cgdl di cedere la Fiat alla Lega delle cooperative che, però fatti i suoi bravi calcoli, aveva declinato l’offerta.

Se Agnelli aveva poi seguitato a fare di testa sua, ad onta delle rimostranze o delle obiezioni dei vertici della Confindustria in cui era rientrato, da parte sua Mussolini aveva dovuto ammettere, minacciando più d’una volta severe sanzioni nei confronti del Senatore, che la Fiat agiva come se si considerasse "un’istituzione intangibile e sacra al pari della Dinastia, della Chiesa e del Regime".

In effetti, quella che nel frattempo era divenuta l’ammiraglia del capitalismo italiano riteneva anche di dover additare quale fosse la strada migliore da seguire nell’interesse del Paese. Fu così che nel giugno del 1932, nel pieno della Grande crisi, Agnelli suggerì di ridurre le ore di lavoro a parità di salario, per assorbire la disoccupazione e rilanciare la domanda. Con il risultato di spiazzare la Confindustria e scostarsi dalle direttive del governo fascista.

Ma nel dopoguerra neppure Vittorio Valletta aveva badato ad andare d’accordo con la Confindustria. Del resto, fra lui e il presidente Angelo Costa non era mai corso buon sangue. E Costa, che non aveva certo peli sulla lingua, era infine sbottato nel dicembre 1954 all’assemblea dell’Associazione, sottolineando, con riferimento in primo luogo alla Fiat, «i pericoli della formazione di nuovi gruppi di pressione e delle politiche di corridoio praticate dalle grandi aziende private, troppo portate a stabilire un rapporto diretto con lo Stato, indipendentemente dai rapporti associativi».

Fu con il suo successore, Alighiero De Micheli, che Valletta entrò decisamente in rotta di collisione. A Torino infatti, non avevano visto di buon occhio l’accordo siglato nel febbraio 1956 fra la Confindustria, la Confcommercio e la Confagricoltura a sostegno degli esponenti più conservatori, ritenendo che fosse il modo più controproducente di condurre la battaglia contro il Partito comunista (Pci).

Un altro duro scontro avvenne all’inizio del 1962, quand’era in vista l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. Gianni Agnelli disse chiaro e tondo che alla Fiat si era "favorevoli a Nenni, contro l’opinione della grande maggioranza della Confindustria". E a Furio Cicogna Valletta fece sapere che non era disposto a battersi per impedire la nazionalizzazione dell’energia elettrica.

A segnare una tregua fu nel 1970 la "riforma Pirelli", anche in quanto preceduta dalla creazione del gruppo dei Giovani imprenditori, patrocinata dalla Fondazione Agnelli. D’altronde, l’Avvocato aveva collaborato con Leopoldo Pirelli a quella risoluzione volta a ridisegnare le funzioni e l’immagine dell’Associazione in senso innovativo e per un dialogo fra le parti sociali, ai fini della modernizzazione del Paese.

Nel maggio 1974 con l’elezione dell’Avvocato alla presidenza di Confindustria, si realizzò infine una simbiosi fra la Fiat e l’Associazione. Non solo perché, come si disse, si passò così da una monarchia assoluta a una monarchia costituzionale con a capo un "principe illuminato"; ma perché Giovanni Agnelli venne considerato dagli industriali italiani una sorta di nume tutelare in una situazione d’emergenza fra l’offensiva del terrorismo e una pesante stagflazione. Una funzione consolare, questa, che dopo due anni Agnelli volle venisse trasferita all’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli.

Successivamente – durante l’avvento alla ribalta di una schiera di nuovi imprenditori provenienti da medie-grandi imprese –, non mancarono divergenze d’opinioni su singole questioni fra Corso Marconi (per oltre quarant’ anni sede del top management della Fiat e a lungo sinonimo del gruppo) e Viale dell’Astronomia. Ma questa dialettica concorse a fare di Confindustria una sede importante per un aperto confronto sulle politiche economiche e sociali nazionali e sulle prospettive della causa europeista.

I fuochi si riaccesero nel 2000 allorché venne eletto al vertice di Confindustria Antonio D’Amato, battendo – in una votazione a scrutinio segreto, il candidato della Fiat Carlo Callieri – il manager che, dopo aver patrocinato la "marcia dei 40mila" dell’ottobre 1980, era stato fautore della "concertazione" fra imprese e sindacati. E l’Avvocato era ormai scomparso da un anno quando il Lingotto (dove si era trasferito dal 1997 il quartier generale della Fiat) si prese la rivincita con l’elezione al palazzo dell’Eur, nell’aprile 2004, di Luca Cordero di Montezemolo.