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 2011  ottobre 04 Martedì calendario

NELL’AFRICA NERA I RAZZISTI PIÙ FANATICI


Avete dei sensi di colpa nei confronti degli africani derelitti? Per superarli vi consiglio caldamente Cento giorni di Lukas Bärfuss (Einaudi, pp. 216, euro 15). È buona letteratura e migliore terapia, è il romanzo perfetto per farsi passare la voglia di sovvenzionare Ong, di partire come volontari per plaghe remote, di struggersi per la fame nel mondo...
Bärfuss è uno scrittore di lingua tedesca e nazionalità elvetica, proprio come quei virtuosi cooperatori che prima del 1994 affollavano il Ruanda sognando di riuscire a trasformarlo nella Svizzera dell’emisfero australe. Sappiamo com’è andata a finire: ottocentomila morti in cento giorni di massacri (da cui il titolo). In filosofia, per spiegare casi come questi, si parla di eterogenesi dei fini. Ma c’è un detto popolare molto più comprensibile ed efficace: la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. «Il nostro lavoro è servito a una banda di criminali», sbotta nelle ultime pagine uno degli svizzeri, quando ormai il sangue è stato versato. «Davamo loro le matite con cui poi scrivevano le liste dei morti, installavamo la linea telefonica attraverso cui impartivano l’ordine di uccidere, costruivamo le strade grazie alle quali gli assassini raggiungevano le loro vittime».
Il meccanismo non è difficile da capire: i Paesi poveri, solitamente ricchi di manodopera e materie prime, sono poveri innanzitutto perché non sono democratici, perché le istituzioni sono occupate da un clan o da una tribù, e quindi non si possono mandare aiuti se non attraverso quel clan o quella tribù (che il denaro occidentale rafforza economicamente e militarmente).
Il protagonista è un umanitario, quindi uno sciocco, ma alla fine ci arriva perfino lui: «Cominciavamo a capire che finora avevamo sostenuto dei razzisti ». Sì, perché Cento giorni ci ricorda che la culla del razzismo è l’Africa, l’Africa nera, non l’Europa e nemmeno la vituperata America bianca degli Stati sudisti. Nei nostri Paesi cattolici una vera e propria discriminazione basata sul colore della pelle non si è mai vista, in quelli protestanti senza dubbio esisteva, però non ha mai assunto i connotati del genocidio e comunque si è affievolita fino a scomparire del tutto (vedi Barack Obama alla Casa Bianca). Solo dalle parti dell’Equatore è stato recentemente possibile che ottocentomila persone (comprese donne incinte e bambini) venissero falciate a colpi di machete perché troppo scure o troppo chiare.
In verità, in Ruanda ha giocato un ruolo importante anche la statura: «Ogni persona apparteneva o al gruppo dei Lunghi o a quello dei Corti». I Lunghi erano e sono i tutsi ovvero i watussi, gli «altissimi negri» della celebre canzone di Edoardo Vianello, caratterizzati inoltre da naso stretto e carnagione relativamente più pallida. I Corti erano e sono gli hutu, neri come la notte e col naso più largo. La difficile convivenza si trasforma in guerra civile (o meglio razziale), quando un corso di formazione messo in piedi dagli svizzeri zelanti permette ad alcuni fanatici di aprire una stazione radio dalla quale lanciare appelli al massacro. «Non era stata nostra intenzione insegnare come si fa a compiere un genocidio ma in qualche modo non riuscivo a liberarmi di quella sensazione: era come ascoltare un progetto della Direzione ben riuscito».
Ovviamente, trattandosi di romanzo, non manca la storia d’amore, ma pure questa sembra fatta apposta per turbare le anime belle. Lei è una hutu sprezzante: il benessere della sua gente dipende dagli aiuti internazionali, però non manifesta nessuna riconoscenza, anzi deride l’amante bianco: «Si prese gioco del mio sentimentalismo. Mi considerava uno di quei soliti europei decadenti che lasciano dormire i gatti nel loro letto». Solo verso l’epilogo lo svizzero comprende di aver perso la testa per una «piccola, ottusa, scaltra, sadica razzista», ma questa consapevolezza non lo ferma bensì lo eccita ulteriormente, siccome (sante parole) «il sesso non ha a che fare con l’amore e l’armonia, quanto con la lotta e la sottomissione».
Avaro ed egoista come sono, non avevo certo bisogno di Cento giorni per mantenere sigillato il portafoglio quando qualcuno si mette a cianciare di buone cause equatoriali. Ne ho apprezzato la scrittura, il ritmo avvincente e quella onestà intellettuale che può ricordare il grande Michel Houellebecq. Bärfuss piacerà agli estimatori dello scrittore francese come pure a chi non lo sopporta, non perdendosi in digressioni e frenando il sarcasmo. Si limita a descrivere il razzismo degli africani e di come un fiume di denaro possa trasformarsi in un fiume di sangue. Scusate se è poco.

Camillo Langone