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 2011  ottobre 04 Martedì calendario

Oh Comunicazione, invincibile divinità crudele e gettonatissima, che cosa non si fa per lei in questo tempo dissennato! Quali confini, quali codici, quali virtù non sono stati travolti e stravolti in suo nome a colpi di strategie, patologie, trovate, furbate, e mode, contagi, slogan, claim, spin più un´infinità di altre diavolerie, tutte più o meno attrezzate e orientate dal marketing, quindi dal consumo – però anche di attenzione

Oh Comunicazione, invincibile divinità crudele e gettonatissima, che cosa non si fa per lei in questo tempo dissennato! Quali confini, quali codici, quali virtù non sono stati travolti e stravolti in suo nome a colpi di strategie, patologie, trovate, furbate, e mode, contagi, slogan, claim, spin più un´infinità di altre diavolerie, tutte più o meno attrezzate e orientate dal marketing, quindi dal consumo – però anche di attenzione. Bene (male, in realtà), e in ogni caso: con questo suo Come dire. Galateo della comunicazione (finalmente minuscolo: Mondadori, pagg. 216, euro 17), Stefano Bartezzaghi certo si diverte, ma con tutta probabilità sente anche il dovere civico di ripristinare regole di buonsenso e indicare vie di sopravvivenza facendo leva sul potere residuo, ma sempre fulminante della parola, anzi delle parole che restano «quanto di più vicino – spiega – al pensiero». Lo fa sempre con garbo, sovente con grazia; sono osservazioni mai banali né altezzose, piuttosto suggerimenti e divertimenti dispensati da un lessicografo così poco pedante da farsi egli stesso artistico giocoliere, funambolo del lessico, poeta vagamente lunare, come sanno i lettori di Repubblica e del Venerdì, e come tale erede legittimo di quel Toti Scialoia che tanti anni fa deponeva i pennelli per intrecciare indimenticabili rime: «Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte». Ora, Bartezzaghi è uno spirito aperto nella sua immane, fervida, meticolosa e anche allegra curiosità. Per cui pure intrattendo una proficua corrispondenza con lettori non sai bene se più eruditi o pazzoidi – le due categorie non essendo affatto inconciliabili – continua a raccogliere spropositi, a catalogare barocchismi, a sviscerare gli ammassi, i rimbalzi, i vuoti e i calcinacci della lingua viva. Ma anche studia i menu e la loro pretenziosa evoluzione; ragiona intorno alle cripto-diagnosi dei medici, alle cronache creative delle partite, alle canzoni fiorite di Sanremo; si concentra sulle crudeli follie che da sempre portano i genitori a infliggere certi nomi di battesimo a innocenti neonati; e ancora insegue con spensierata acribia le variabili dell´articolo, il fascino stuzzicante dei puntini di sospensione, gli equivoci della virgola e ancor più della sua mancanza, generatrice di piccole verità programmatiche, vedi il comunicato che anticipa l´argomento della serata televisiva, nel caso specifico «la tratta delle ragazze dell´Est costrette a prostituirsi nel talk-show di Bruno Vespa». Infiniti sono del resto gli esempi di confusione, gli abbassamenti e gli accavallamenti che le vicissitudini del logos trasmettono a chi voglia farne memoria e tesoro: titoli corrivi, luoghi comuni, abnormi vestigia camuffate da neo-tribalismi, incontinenze che cercano sfoghi negli oroscopi taroccati o nei testi delle telepromozioni. È la Babele italiana in cui ci si capisce troppo e non ci si comprende per nulla. L´esultanza dei calciatori quando fanno goal; gli applausi ai funerali; le mail stralunate che intasano la posta di ciascuno; come pure l´ambiguità che porta parecchi protagonisti dei salotti televisivi a comportarsi secondo moduli affettati e incivili ad un tempo, un atteggiamento che Bartezzaghi sintetizza nella frase: «Mi consenta, coglione». Per non dire della mamma che sulla spiaggia dice alla figlioletta di anni quattro: «Lo sai che quando fai così mi fai incazzare?». All´inizio del libro sembra tutto molto amabile e perfino leggero. Fanno da testimoni autori illustri, Gadda, Arbasino, Campanile, Primo Levi oltre a una nutrita serie di specialisti, glottologi, linguisti. Ma più si scava in profondità, più si avverte nel sottosuolo del linguaggio di questo tempo un che di spaventoso, una belva pagliaccesca, un sogno di natura incubatica che trova nell´eccesso il proprio enfatico compimento. Vedi l´orgia "megagalattica" che sulla scorta di Fantozzi fanno allestire al Salaria Sport Village per il capo della Protezione civile; vedi il superlativo "direttorissimo!" con cui il capo del governo, teorico della pubblicità, lusinga il direttore del Tg; e i "culattoni" nominati nella nota ufficiale del ministro Tremaglia; e il vaffanculo pronunciato come una litania da Beppe Grillo; come pure Brunetta che chiama gli italiani a esprimersi sull´efficacia degli uffici con gli emoticon. Certo, qui ci scappa anche un piccolo e in fondo ragionevole trastullo sull´assonanza che lega Brunetta all´emotica "faccetta". Il pregio di questo galateo sta infatti nel distacco, nella coscienza del limite e quindi nel più raro e paziente deficit di animosità che si risolve semmai in ironico scetticismo. Eppure, nulla più del parlato riesce a trasmettere il senso di un imprevisto smottamento, di una dolorosa regressione che certo muove da lontano, ma finisce per affliggere la società italiana: non più liquida, si direbbe, ma in fase di avanzata nebulizzazione e comunque posta sotto il dominio della sguaiataggine, dell´egoismo, dell´ipocrisia e della coazione esibizionistica. Un mondo di allettanti imperativi e formidabili inganni, per giunta legittimati dal consumo. Assai lontani a questo punto appaiono i giochi di parole, i brividi del trash, i consigli sull´uso dei doppi sensi, i poveri bimbi battezzati Turbilio, Maikol, Briseide, Oceano e Suellen, le «scabrose gioie che venivano dai giornali sportivi all´epoca in cui era in attività un centravanti che si chiamava Pompini». Oggi svapora e si banalizza perfino il turpiloquio. Tutto divora tutto, a conferma della straordinaria lezione di Queneau secondo il quale «la Storia è la scienza dell´umana infelicità». E così, attraverso la parola – e solo attraverso la sua luce, la sua energia – si arriva là dove lo stesso Bartezzaghi forse in partenza non aveva immaginato di arrivare: al cuore sanguinante dei grandi problemi di questo tempo. Ma una volta lì, ecco, guai a prenderli e a prendersi troppo sul serio. E dunque: «Come dire?», come dirlo? A questo dopo tutto servono manuali e galatei, specie se scritti con serena eleganza: a dare una mano, a restituire un po´ di sollievo, a illuminare una paio di metri di sentiero nel buio. A dare una voce, un fischio allegro, a volte basta un soffio, altre volte un sorriso. Per il resto «l´ego ciabattone» di ciascuno è sempre pronto a dare il peggio. Ma saperlo è già molto, anzi moltissimo.