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 2011  ottobre 04 Martedì calendario

MILANO —

L’attore più famoso di Hollywood viveva nella villa più lussuosa, accanto a quella dell’attrice più affascinante, perché era grazie al successo dei suoi film che una casa di produzione traballante era diventata la Warner Brothers. Esempio di professionismo, sul set era sempre puntuale senza mai sbagliare una scena. Saltava, correva, lottava: fu la prima star del cinema d’azione. Alla sera della prima fissava tranquillo gli obiettivi dei fotografi, senza curarsi dei flash al magnesio. Diventò famoso nel 1923, e anche se allora il cinema era ancora muto per lui non era un problema. Perché la mancanza di audio risolveva in partenza il suo unico punto debole. L’attore più famoso di Hollywood non avrebbe potuto dire una parola anche se il sonoro fosse già stato inventato perché era un bellissimo esemplare di pastore tedesco: Rin Tin Tin.

La storia del cane che conquistò Hollywood ma anche gli intellettuali come il poeta Carl Sandburg, suo fan — e quando morì fermò l’America per lutto nazionale, con le radio a trasmettere per ore interviste con gli attori dei suoi film e i radiodrammi costellati dei suoi latrati — era troppo paradossale perché non attirasse l’attenzione di Susan Orlean del New Yorker, la cronista dei casi bizzarri, autrice de Il ladro di orchidee trasformato in un film ancora più strano con Nicolas Cage e Meryl Streep, Adaptation. Così Susan Orlean ha investito dieci anni della sua carriera per scrivere una biografia di Rin Tin Tin (1918-1932) e dei suoi successori, i suoi figli e nipoti e lontani discendenti che continuarono il lavoro rilevando il marchio di fabbrica fino al celebre serial di ambientazione Western degli anni ’50 (col piccolo Rusty mascotte nordista) che per chi è cresciuto con la tv in bianco e nero rappresenta quello che è «Happy Days» per chi è diventato grande con quella a colori: semplicemente «il» telefilm.

Il libro, uscito la scorsa settimana negli Stati Uniti, racconta la storia del soldato americano Lee Duncan che da bambino era finito in orfanotrofio ed era stato separato dal suo amatissimo cane. E nelle ultime settimane della prima guerra mondiale trovò in Francia un cucciolo di pastore tedesco, convincendo i superiori a lasciargli portare a casa, in California, quel cucciolo intelligentissimo. I due diventarono inseparabili — tanto che la moglie di Duncan si sentiva trascurata a vantaggio del cane — e Rin Tin Tin, straordinariamente ben addestrato, diventò attore: la Hollywood artigianale degli inizi aveva bisogno di manodopera a basso costo anche quando si trattava di comparsate di animali, e con Rin Tin Tin non c’era mai bisogno di girare un’altra scena sprecando preziosa pellicola.

Nell’America tra le due guerre però, spiega Orlean, i cani non erano ancora diventati i compagni abituali di chi abita in città: erano per lo più animali da fattoria che facevano la loro parte di lavoro. Ecco perché Rin Tin Tin diventò famoso non come tenero giocherellone ma come atletico divo dei film d’azione, incarnando — lui che era francese, strana la vita — lo spirito pionieristico dell’America uscita dalla prima guerra mondiale: saranno gli eredi di «Rinty», negli anni ’40 e ’50, in un’America molto diversa e assai più ricca, il Paese della pubblicità e dei frigoriferi in ogni casa e della tv, a interpretare un ruolo diverso da quello del loro avo, più simile a quello dei cani dei film di oggi (dove bastano gli effetti speciali a dare quel che manca agli animali ammaestrati).

Susan Orlean racconta la storia incredibile del cane che diventò il divo più pagato, di come la generazione del baby-boom del dopoguerra sia cresciuta guardando i telefilm western con quel cane «eroico e devoto», esempio di valori stoici, quasi più umano dei goffi bipedi che gli toccava regolarmente, prima delle parole «The End», di salvare ancora una volta. «Noi attori facciamo finta di essere quelli che non siamo pronunciando parole scritte da altri, e il più famoso di tutti noi è un cane» disse negli anni ’50 Robert Mitchum, taciturno demolitore del mito di Hollywood riferendosi proprio a Rin Tin Tin che lasciò al suo padrone un patrimonio di cinque milioni di dollari (oggi, calcolando l’inflazione, sarebbero 82). Il cane che — come i Barrymore negli Usa o i Redgrave in Gran Bretagna — generò una dinastia: Rin Tin Tin junior, Rin Tin Tin III e così via attraverso i decenni hollywoodiani. «Data di nascita 1918, data di morte mai», diceva il suo padrone-manager che però conservò per decenni in una stanza dedicata ai ricordi tutti i ritagli di giornale e le foto del primo, vero Rin Tin Tin, da lui adottato quando era un lupacchiotto spaventato in una trincea tedesca. Il cane vicino di casa di Jean Harlow, la diva dai capelli di platino di Nemico pubblico e Argento vivo che lo tenne tra le braccia quando il vecchio Rin Tin Tin, stanco per aver salvato troppi umani (compresa la Warner Brothers) in cambio di carne macinata di prima scelta e di una carezza, morì come si addice al più grande divo di Hollywood. Portando negli occhi il sorriso della donna più bella del mondo.

Matteo Persivale