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 2011  settembre 22 Giovedì calendario

Copenaghen a gomme sgonfie Crolla il mito dell’ecociclista - Alla fine ci siamo arrivati, è il para­dosso dell’ecologismo

Copenaghen a gomme sgonfie Crolla il mito dell’ecociclista - Alla fine ci siamo arrivati, è il para­dosso dell’ecologismo. Ingorghi e at­teggiamenti arroganti nel traffico non sono effetto e prerogativa dei soli auto­mobilisti o motociclisti (secondo la sensibilità dei singoli): anche i santifi­cati ciclisti possono causare i primi e assumere i secondi, basta che gliene si dia l’occasione. E l’occasione gliela danno i Paesi e le città in cui la biciclet­ta, mezzo ecologico per definizione, ottiene più spazio grazie a politiche di incentivo. È il caso di Copenaghen, che da tre anni reclamizza se stessa nel mondo con il brillante slogan «I bike Copena­ghen » e da decenni promuove in ogni modo l’uso preferenziale della due ruote senza motore. Una promozione che ha avuto successo, se è vero che, a fronte dell’attuale 36 per cento di da­nesi che ogni giorno usano la biciclet­ta per andare al lavoro o a scuola, l’am­ministrazione della capitale si prefig­ge per il 2015 l’obiettivo di superare la quota simbolica del 50 per cento. Il che si traduce nel mettere in strada cir­ca 250mila biciclette. E considerato che già oggi a Copenaghen vengono percorsi ogni giorno più di un milione e 300mila chilometri in bicicletta è fa­cile figurarsi un futuribile panorama stile Pechino negli anni di Mao Tse Tung. Ma qui cominciano i problemi. Co­penaghen ( e neanche Berlino, e nean­che Amsterdam, per citare altre due metropoli europee dove la bicicletta conquista spazi e diritti) non è la Pechi­no degli anni Sessanta. Qui non ci so­no gli immensi viali semivuoti dove è possibile udire il surreale fruscio di mi­gliaia­di pedali che ronzano disciplina­ti all’unisono. È una città europea, do­ve le biciclette circolano sulle apposi­te piste e devono fare i conti con le au­to e con i pedoni. Ma è anche una città dove si lavora (e quindi inevitabilmen­­te si ha fretta) e dove molti ciclisti-eco­logisti si sentono investiti di un’aura di superiorità. Da qui- lamenta la stes­sa Federazione ciclistica danese- il fre­quente mancato rispetto del codice stradale da parte dei pedalatori e un certo irritante sprezzo del pericolo (so­prattutto quello corso dagli altri, in questo caso altri ciclisti o pedoni) che potremmo tradurre con un «Ti vengo addosso? Peggio per te». A Copenaghen, insomma, ci sono troppe bici in giro e troppi maleducati che si sentono autorizzati a esserlo in virtù di un certo spirito del tempo. Lun­go le piste ciclabili gli spazi sono inta­sati, si sta gomito a gomito e proprio co­me nelle gare la bagarre è inevitabile. Soprattutto, come si diceva all’inizio, arroganza e prepotenza si fanno stra­da ( è il caso di dirlo) tra chi pedala esat­tamente come tra chi guida un’auto o una moto. Al punto che ormai nella ca­pitale mondiale delle biciclette c’è chi lancia un allarme contro l’aggressivi­tà e l’indisciplina di coloro che vengo­no proposti o immaginati come i più responsabili utenti della strada. Frits Bredal, della Federazione cicli­stica danese, ha spiegato al quotidia­no britannico Guardian che non solo i ciclisti locali ma anche molti dei turi­sti che vengono a Copenaghen attratti dalla sua «pedalabilità» si comporta­no in modo sconsiderato e non di rado sgradevolmente intimidatorio. Solu­zioni del problema? Ampliare la rete delle piste ciclabili, rispondono in molti. Meglio prima fare opera di edu­cazione al rispetto dell’altrui sicurez­za, replicano altri ricordando che non tutti gli utenti delle due ruote sono gio­vani atleti dallo spirito competitivo: ci sono anche tanti anziani, donne ma­gari con bambini piccoli, e perfino (ma chi se li fila più questi ultimi?) in­dividui normali che s’illudono che usare una bicicletta non significhi ne­cessariamente correre. Tutta gente che al noto fotografo danese Mikael Colville-Andersen, che ha dichiarato orgoglioso che «andare in bicicletta a Copenaghen non è un’attività adatta ai pavidi», risponderebbe volentieri: «Ma vai a farti un giro». Da un’altra parte, però.