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 2011  settembre 21 Mercoledì calendario

Non siamo ciò che sembriamo. Abbiamo più batteri, virus e funghi in noi che cellule. Forse siamo mostri e non lo sapevamo

Non siamo ciò che sembriamo. Abbiamo più batteri, virus e funghi in noi che cellule. Forse siamo mostri e non lo sapevamo. Ma questa «mostruosità» sta accendendo molte lampadine nella testa degli scienziati, che pensano di sfruttarla per la medicina del futuro. Professor Alberto Mantovani, lei è uno dei più celebri immunologi italiani e ha appena pubblicato «I guardiani della vita», dedicato alle invisibili guerre che in ogni istante si svolgono nel nostro organismo e alle sfide che ci mettono di fronte: quali sono? «La prima sfida è legata alla conoscenza. Sappiamo che conteniamo più microbi che cellule, nella misura di almeno 2 ordini di grandezza, ma ne conosciamo appena la punta dell’iceberg: in alcuni casi abbiamo decifrato la loro impronta genetica, ignorando però le loro proprietà». Dove si trovano? «Si concentrano soprattutto nell’intestino, nell’albero respiratorio e sulla pelle. Per spiegare le loro interazioni con il nostro organismo è stato inventato il termine “microbioma”, fondamentale, tra l’altro, per l’attività metabolica». Per esempio? «Ci fornisce sostanze importanti e ci aiuta ad assimilarne altre: si è scoperto che nel microbioma del tratto gastroenterico dei giapponesi si annida un batterio capace di digerire le alghe del sushi. E’ di origine marina e nel mare fa lo stesso. Noi, però, ne siamo sprovvisti. E questa realtà ci dà un’indicazione importante». Quale? «Che il nostro microbioma è prezioso: cambia con l’ambiente e con lo stile di vita e inoltre - ed è una scoperta recente - è essenziale per “educare” il sistema immunitario». Andiamo a scuola dai microbi? «In effetti molto dipende dai contatti con loro. Un caso interessante è legato al problema delle allergie, in continuo aumento. Per molto tempo si è pensato che l’asma bronchiale fosse legata all’inquinamento ambientale, in realtà gli ultimi esperimenti hanno falsificato l’ipotesi. Emerge, invece, la spiegazione dell’eccessivo igiene. I bambini che crescono in campagna, a contatto con gli animali, hanno meno probabilità di sviluppare la malattia rispetto a chi vive in città. E’ la prova formale che i primi vengono a contatto con i batteri presenti nelle stalle e che il loro sistema immunitario attiva delle risposte specifiche, chiamate in gergo di tipo 1, capaci di frenare le risposte allergiche». Risposta che non avviene nei bambini di città? «E’ così. Dobbiamo pensare al sistema immunitario come a un sistema sempre “a bilancia”. Deve affrontare nemici molto diversi, dal batterio della tubercolosi al verme intestinale, ma, quando non è stato educato a “vedere” i batteri, come accade ai bambini di città o a chi è trattato con antibiotici alla prima linea di febbre, mancano i freni alle risposte di tipo 2, quelle che servono a difenderci dai parassiti. Così si attivano le risposte anche contro i pollini o gli acari, scatenando le allergie». Tornando all’inizio, c’è anche una seconda sfida, giusto? «E’ legata al lato oscuro: se alcuni microbi sono dei buoni compagni di strada, altri scatenano le malattie, cambiando ed evolvendosi. L’hanno sempre fatto, ma di recente sono comparsi molti nuovi agenti, come un ceppo E.coli che, sebbene abbia causato allarme in Europa, è stato affrontato con grande efficacia. In poche settimane, grazie alle tecniche veloci di sequenziamento del genoma e alle reti internazionali di ricerca, si è identificata la variante in termini molecolari, si è capito che ci sono pezzi di Dna capaci di trasferirsi da un batterio all’altro e si osservato il meccanismo d’attacco alle mucose intestinali». Lei scrive che le due sfide impongono un nuovo approccio scientifico per lo studio del sistema immunitario: di che cosa si tratta? «Di un approccio complesso, dato che continuiamo a scoprire, con nostra sorpresa, sottotipi sempre nuovi di cellule, dalle T ai macrofagi. Questa realtà sempre più estesa richiede un’organizzazione diversa della ricerca, tecnologie via via più sofisticate e un approccio globale di “system biology”. Invece delle singole molecole, ora ci si deve occupare anche dell’insieme dei processi». Può fare un esempio concreto? «L’approccio è ancora nella sua infanzia, ma si comincia già a utilizzare per identificare molecole nuove nel sistema immunitario, associandole a specifiche funzioni: è un tipo di ricerca che conduciamo anche all’Istituto Clinico Humanitas di Milano e che consente di osservare i diversi sistemi di regolazione del sistema immunitario attraverso la trascrittomica, la disciplina che studia l’insieme degli RNA messaggeri di una cellula». E le applicazioni per i malati? «Si cominciano ora a intravedere. Siamo per esempio in grado di decifrare le impronte digitali dell’intero microbioma di un individuo e osservare come viene perturbato dall’uso di antibiotici, soprattutto quando si assumono senza necessità. Ma di recente l’approccio è stato applicato anche per la vaccinazione contro l’influenza, identificando geni e molecole essenziali per la risposta contro il virus. Ma è importante sottolineare che le due prospettive, questa di tipo complesso e quella riduzionistica, si affiancano l’una all’altra». Come cambierà la lotta alle malattie più gravi, dai tumori all’Aids? «Il punto fondamentale è che abbiamo un bisogno disperato di nuovi vaccini e di fare arrivare quelli che abbiamo già, e che hanno cambiato la vita della nostra specie sul pianeta, a 3 milioni di bambini che muoiono ogni anno. Abbiamo imparato a realizzarne alcuni che utilizzano specifici sistemi di difesa, in particolare gli anticorpi, ma non siamo capaci di produrre quelli che inducono risposte mediate da alcune classi di linfociti, essenziali, per esempio, per la difesa contro il cancro o contro virus come l’HIV. Ma questa è una solo una delle frontiere». E le altre frontiere? «Imparare a modificare il sistema immunitario, scoprendo le relazioni tra i microrganismi e le malattie. Un’altra ancora è duplice: insegnare al sistema stesso a riconoscere i “buoni” e i “cattivi”, facendo fuori i patogeni e lasciando in pace i compagni di strada che ci servono, e anche a distinguere se stesso da ciò che non lo è, impedendogli di dirigersi contro l’organismo, processo che invece accade con le malattie autoimmuni, che colpiscono una persona su 5». E soprattutto le donne, è così? «Sì. E infatti l’autoimmunità costituisce il paradigma per una medicina che si fa carico delle differenze di sesso. Abbiamo fatto e faremo grandi progressi nel controllare questo tipo di malattie, perché già oggi, studiando il sistema immunitario, sono stati ideati farmaci efficaci, che hanno cambiato la vita di chi soffre di artrite reumatoide o di malattie infiammatorie. E di recente ci sono novità anche nella terapia del lupus: ora si riesce a controllarlo meglio, ma ancora non si riesce a spegnere l’interruttore che lo origina. Ecco un’altra sfida per la medicina del futuro». Sarà quindi l’immunologia a curarci? «Parafrasando un’affermazione di Rino Rappuoli, secondo il quale i “vaccini sono l’assicurazione sulla vita del Terzo Millennio”, direi che l’immunologia è probabilmente la più importante assicurazione sulla vita per la nostra specie nel XXI secolo».