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 2011  settembre 21 Mercoledì calendario

IL MARCIO È TANTO, LE REGOLE NECESSARIE

Le inchieste giudiziarie non sono delle Procure che intercettano per prime, o che per prime le fanno uscire sui giornali, ma delle Procure nel cui circondario sono avvenuti i fatti su cui si indaga. Sembra un’ovvietà, ma la sentenza di Amelia Primavera, nome gentile e mano ferma per il giudice delle indagini preliminari che ha tolto l’inchiesta Lavitola-Tarantini a Napoli e l’ha consegnata a Roma, infila un po’ di diritto nel legno storto del complesso mediatico- giudiziario. A Napoli è sembrata infatti crescere in questi mesi una specie di Superprocura addetta ai reati del Pdl, prima con Papa-Bisignani, poi con Milanese, infine con Lavitola-Tarantini (alias Berlusconi).
Questo attivismo dipende certamente dall’alta concentrazione di reati che si compiono in quella disgraziata città, ma in parte anche dal metodo investigativo portato dal sostituto Woodcock, che l’ha già sperimentato altrove. È il cosiddetto sistema a strascico, o a rosario: indago su un reato, il cui autore parla al telefono di un altro reato, il cui autore parla al telefono di un altro reato, e di reato in reato arrivo fino al pesce grosso, per esempio a Vittorio Emanuele. O a Berlusconi. Non a caso Napoli è oggi la capitale di una nuova generazione di pm d’assalto: da quei ranghi provengono perfino il sindaco e un assessore della giunta comunale. Però il diritto dell’imputato al giudice naturale e i doveri di leale collaborazione tra le procure dovrebbero indurre chi scopre reati compiuti altrove a passare subito gli atti ai colleghi competenti. E questo non solo per non pregiudicare le indagini, ma anche per evitare il grave rischio che producano effetti politici ed istituzionali, o che addirittura siano usate per produrli, prima ancora che gli effetti giudiziari si compiano o perfino in totale assenza di essi. L’inchiesta per la presunta estorsione compiuta ai danni di Berlusconi dal procacciatore Tarantini e dal faccendiere Lavitola è da questo punto di vista un caso di scuola. Prima ancora che si sapesse che non era di pertinenza di Napoli, infatti, da Napoli era già uscita la telefonata in cui Berlusconi dice che questo «è un Paese di merda», di indiscutibile grande effetto politico e mediatico; era già arrivata l’accusa al procuratore di Bari di aver tenuto per sé intercettazioni che molti ritenevano — o speravano — anche più infamanti per Berlusconi di quelle che poi sono uscite; era già stato avviato uno scontro istituzionale di prima grandezza sull’idea di disporre addirittura l’accompagnamento coatto del presidente del Consiglio come teste, visto che lui si rifiutava sostenendo — forse non a torto — di essere già un imputato. In ogni caso, quell’accompagnamento coatto ora non ci sarà più perché il giudice ha dato ragione a Berlusconi sul punto essenziale: e cioè che Napoli non ha la competenza a indagare. Intendiamoci: queste inchieste stanno aprendo squarci molto utili sul brutto mondo che aveva accesso al premier e sulla grave ipotesi che ripagasse i suoi piaceri privati concedendo favori basati sul suo potere pubblico (seggi parlamentari, comparsate in Rai, raccomandazioni per appalti con aziende dallo Stato). Ma la Giustizia non è un reportage giornalistico. Deve perseguire reati, e lo deve fare rispettando le forme, perché le forme sono la garanzia del processo. Dei pm napoletani, del resto, almeno questa volta non sentiremo la mancanza, visto che ci sono altre quattro procure che indagano sui rapporti del premier con escort e lenoni: Milano per Ruby, Bari per la D’Addario, Lecce sul procuratore di Bari, e ora Roma per i ricatti di Tarantini. De hoc satis.