Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  settembre 21 Mercoledì calendario

Lady B, imperatrice della Padania - «L’anima nera del movimento»: è così che i militanti, sindaci ed esponenti del Carroccio ormai chiamano Lady B

Lady B, imperatrice della Padania - «L’anima nera del movimento»: è così che i militanti, sindaci ed esponenti del Carroccio ormai chiamano Lady B. Ossia la moglie del capo, Manuela Marrone Bossi. Colpevole di avere costruito un «cerchio magico», che ha offuscato la vista del Senatur, segregato il suo corpo, trascinando il movimento sull’orlo del baratro. In nome della famiglia. E ora sta dirigendo una campagna militare per punire ribelli e traditori, cioè chiunque si azzardi a immaginare una Lega senza Umberto Bossi o i suoi figli. Nonostante la simpatica sceneggiata recitata dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni, e dal ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, che a un comizio in Piemonte si sono messi i guantoni da boxeur per ironizzare sulla guerra all’interno della Lega, a Varese, nella capitale della Padania, il clima è sempre più teso. Sindaci, militanti, esponenti locali del partito se ne infischiano di ciò che accade nei palazzi romani. A loro non interessa se la Lega è costretta a difendere la maggioranza perché per ora non ha alternativa. A loro interessa una cosa sola: salvare il movimento padano dal suo declino. O meglio, sottrarlo ai tentacoli del cerchio magico, che ormai assomiglia alla corte decadente di un impero, che rischia di perdere tutte le sue colonie, per poi implodere. È così che gli avversari, simpatizzanti di Maroni, la base del partito, rottamatori che chiedono un rinnovamento generazionale, sindaci che cercano di difendersi dalla mannaia di Giulio Tremonti e a non disperdere lo scrigno dorato del consenso territoriale leghista, vedono l’influenza malefica di Manuela Marrone E si muovono scomposti, aspettando la resa dei conti. Già, la Manuela. Fino a qualche anno fa la chiamavano tutti così, affettuosamente, quando ancora la consideravano una tosta, che aveva costruito la Lega lombarda, a fianco dell’Umberto, nel suo monolocale, sognando la rivoluzione padana. Una che a tutti i giornalisti ripeteva di volersi mantenere lontana dai riflettori della politica per poter andare al mercato e stare in mezzo alla gente. Costruendo, lei che era un’insegnante, la scuola Bosina, dove si possono studiare oltre alle materie ordinarie anche le tradizioni locali, e il dialetto varesino. Finché il capo si è ammalato e lei ha cominciato a costruire una trincea per difendere Bossi dall’ambizione dei colonnelli. E si è trasformata in un’abile burattinaia che preferisce muovere i fili della politica, stando dietro il palcoscenico mentre il sipario si alza sul marito. È stata lei a scegliere Rosi Mauro, oggi vicepresidente del Senato, per affiancare Bossi, dopo la malattia, tenendogli il braccio quando saliva con passo esitante sul palco per un comizio. Permettendole, nella sua veste di badante, di acquistare forza e potere al punto da arrivare a scrivergli l’agenda, a scegliere gli uomini della scorta, a decidere chi poteva avvicinarlo. E a scacciare chiunque potesse costituire un pericolo con la rabbia di un mastino. È stata Manuela a decidere che Marco Reguzzoni, fattuale capogruppo leghista a Montecitorio, dovesse diventare il delfino di Bossi con il compito iniziale di affiancare il figlio Renzo, che quando Bossi aveva ancora una certa presenza di spirito ha soprannominato «il Trota». Ora però le cose sono cambiate. Il cerchio, messo in difficoltà prima dell’estate, quando Maroni è stato acclamato a Pontida, ha rialzato la testa. Si è allargato, nutrito, alimentato da uno sparuto gruppo di parlamentari, da alcuni consiglieri regionali, qualche assessore, pretoriani di Bossi, lombardi e veneti, che nonostante l’età avanzata non vogliono andare in pensione, qualche sindaco, e anche alcuni avventurieri, che si sono avvicinati a Bossi per avere il privilegio di sussurrargli qualcosa nell’orecchio e ottenere qualche favore. «Bossi è stato segregato» dicono gli avversari del cerchio magico, che hanno sperato di liberare il capo dall’abbraccio fatale del clan, prima di contestare la sua leadership. Prima di capire che era troppo provato dalla malattia per poter continuare a recitare la parte del condottiero, prima di accettare che lui ormai diceva sì a tutti, bastava poterlo avvicinare. E chissà se è davvero così confuso, perché nonostante la volontà di Lady B di espellere dal partito chiunque sia sgradito alla famiglia o metta in discussione il famoso motto «Dopo Bossi, il diluvio», per ora il capo tace. E chi un anno fa aveva intuito la decadenza della corte di Gemonio ha cominciato a guardare Lady B con diffidenza. Trasformandola oggi nel capro espiatorio di tutti i mali, o meglio delle debolezze, di una Lega che annaspa. Incapace di difendere la propria identità. Ed ecco perché l’altro offensivo soprannome prima riservato all’aggressiva Rosi Mauro, «Mamma Ebe», ora è diventato un modo per descrivere Lady B. «Io preferirei definirla l’anima nera del movimento» spiega a Panorama un giovane sindaco della provincia di Varese, che si definisce maroniano anche se il ministro dell’Interno (che ora ritiene poco opportuna la resa dei conti fra le due anime del partito) recentemente abbia dichiarato: «I maroniani non esistono». Eppure, i simpatizzanti di Bobo non mollano. «Lei è l’anima nera della Lega perché il movimento padano è un patrimonio di tutti e non proprietà privata della famiglia» insiste un dirigente varesino del partito, chiedendo l’anonimato per non finire sulla lunga lista di proscrizione di Lady B. «Matrona, patrona e un po’ terrena» la definisce in modo sbrigativo un altro sindaco che ha intuito in anticipo il suo potere e ha cercato un chiarimento con lei (con lei, non con Bossi) un anno fa, ottenendo il risultato di finire sulla lista nera. «Non c’è nulla da fare» spiega a Panorama «lei considera traditore chiunque si opponga al potere della famiglia. Manuela è di origine siciliana, per lei la famiglia è sacra e viene prima del movimento».E infatti per amor materno ha indotto il marito ad accettare l’operazione Trota. Ossia la candidatura del figlio Renzo come consigliere regionale a Brescia nel 2010. Per dargli un futuro politico e difenderlo dai colonnelli leghisti, che in futuro, senza Bossi alla guida della Lega, potrebbero farlo a pezzi. Ed è da quel momento, dall’elezione del Trota, che il dissenso verso Bossi è cominciato a crescere. Un peccato indelebile per i soldati del Carroccio, che si considerano combattenti, nati come vedette lombarde di un movimento territoriale e di protesta: non potersi difendere dalle accuse di nepotismo della Lega ha suscitato in loro prima frustrazione e poi rabbia, alimentata dagli sbandamenti di un partito che ha un capo che dice e non dice, promette e non mantiene, fa giri tortuosi di parole per non arrivare da nessuna parte, e quando non ne può più alza il dito medio o ricorre alla pernacchia. Una rabbia prima rivolta verso il capo e poi, vedendolo sempre più stanco e confuso, dirottata su di lei. Lady B. Che, creando il cerchio magico composto da un gruppo minoritario, ma potente per via della vicinanza a Bossi, non gli ha più permesso di ascoltare il cuore del suo popolo. Al punto di suggerirgli di scappare a fine agosto come un ladro nella notte da Calalzo di Cadore, per evitare di essere contestato. C’è perfino chi insinua il dubbio malevolo che potrebbe essere la mano di Manuela dietro il sito web Velina verde, che offre polpette avvelenate per diminuire il consenso di Maroni. Serpeggia il risentimento insomma a pochi giorni dal raduno, fissato per il 18 settembre, dei popoli padani a Venezia (e tutti si chiedono se Bossi ci sarà o non andrà per paura di nuove contestazioni). Risentimento, appunto. «La Manuela? Una baby pensionata che è riuscita a ottenere finanziamenti statali da Roma ladrona per la sua scuola e sta trascinando la Lega verso il baratro»: è questa la sentenza sia dei maroniani sia di molti ex pretoriani di Bossi, tutti convinti di combattere una battaglia contro il tempo per tentare di salvare la Lega. Ora l’ultima delle voci su Manuela è questa: alla corte di Gemonio, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (finita dentro un pasticcio giudiziario per trattamento illecito di dati protetti, dopo avere commissionato di confezionare dei dossier contro i competitor di Renzo Bossi durante la campagna elettorale), ha portato dentro il cerchio magico anche la sua addetta stampa, Adriana Sossi, una sensitiva «che parla con gli alieni », dicono a Varese, scuotendo la testa. Tutti si aspettano l’espulsione dei due maroniani doc, per volontà espressa da lady Bossi, i sindaci Flavio Tosi e Attilio Fontana. Il primo perché ha criticato apertamente il premier. Il secondo, presidente dell’Anci Lombardia (l’associazione dei comuni), è stato obbligato a scegliere fra il partito e il suo incarico di sindaco dalla decisione del consiglio federale di vietare ai primi cittadini leghisti di partecipare a manifestazioni di protesta contro la manovra finanziaria. E cosi è cominciata la resa dei conti. Dal Carroccio trapela un’altra notizia: Giancarlo Giorgetti, il potente segretario nazionale della Lega in Lombardia, da sempre nemico giurato del cerchio magico, nemico anche di Marco Reguzzoni (che vorrebbe prenderne il posto e agitare lo scettro del cerchio magico di Manuela), avrebbe cercato di avere un confronto con lei. Con lei, non con il capo. «Stanno cercando un accordo? Forse Bossi sta veramente male? Cosa stiamo aspettando? Che ci facciano fuori tutti?» si interrogano sgomenti i quadri del partito, a Varese, che guardano all’imminente sfida del congresso provinciale. «I candidati del cerchio magico aumentano e noi dobbiamo stare fermi» ribadiscono con rabbia. E qualcuno senza più esitazioni ricorre a un proverbio lombardo: «Si aspetta uno che nasce, non uno che muore». Politicamente, s’intende.