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 2011  agosto 03 Mercoledì calendario

HO CERCATO LAVORO A CHINATOWN - «Sì

signora, ha capito bene: lavoro... cerco lavoro!» urlo io, seduto su un marciapiede di via Paolo Sarpi a Milano. Dall’altro capo del telefono la mia interlocutrice sembra interdetta. Un po’ non capisce la lingua, un po’ non le pare vero che un italiano, momentaneamente disoccupato, si stia offrendo per la sua caffetteria in zona cimitero Monumentale.
La cornetta passa alla figlia. «Pronto? Lei barista? Quanta esperienza? Cinque anni? Troppo, noi facciamo contratto regolare ma vogliamo apprendista» dice, riattaccando. Al primo tentativo d’assunzione da parte di un padrone cinese sbatto contro tre paroline che mai mi sarei aspettato d’incontrare: contratto, regolare e apprendista. Con poche eccezioni, torneranno spesso in questo viaggio «cuniculum in mano» fra le vie del quartiere cinese di Milano.
L’idea è questa: cercare lavoro a Chinatown. In fondo, perché no? Quella del dragone rimane pur sempre la comunità straniera con la più spiccata propensione al rischio: secondo l’Unioncamere, un un cinese su sette fa impresa, a fronte di un italianosu 44. E ancora: in Italia un’azienda straniera su sei è intestata a un cinese, benché gli ex figli di Mao residenti siano pochi: 180 mila persone, il 5 per cento della popolazione immigrata totale. Insomma, in periodo di pil traccheggiante, perché non rivolgersi al popolo con la maggiore concentrazione di potenziali Bill Gates per cercare un impiego?
Parto di buon mattino dal Bar Zhejiang di via Messina, che per 30 centesimi distribuisce il bollettino cinese delle offerte di lavoro: un foglio A4 con circa 200 annunci provenienti non solo da Milano e provincia ma da tutto lo Stivale: Mantova, Brescia, Firenze, Padova, Peschiera. L’imprenditore in cerca di manodopera telefona e, gratuitamente, pubblica la sua inserzione: descrizione del lavoro, orario richiesto e numero di cellulare.
Fanno più di 5 mila offerte al mese. Chiedo al ragazzo di tradurre alcune voci e scopro che il terreno di caccia è ampio: scalpellini con esperienza, commessi, mulettisti, conciatori, aiuto cuochi, sarte, baristi «solo weekend» e cameriere «preferibilmente part-time». Esistono cinesi che lavorano a orario ridotto: ecco un’altra scoperta.
Per curiosità telefono alla città più lontana, Cagliari. «Ok, ha ragione, forse il mio profilo non è il più adatto, ma in caso dove andrei a dormire?» chiedo per pura accademia al titolare di un’alcova per massaggi nel capoluogo sardo. «A casa sua? Con tutta la famiglia? Gratis?». Domando timidamente se questa promiscuità fra padrone e lavorante non possa risultare alla lunga imbarazzante. E lui: «Noi cinese mica giriamo per casa tutto il giorno in mutande come voi italiani» mi fulmina.
Svantaggio delle mutande incluso, le mie armi per trovare lavoro a Chinatown sono poche me ne rendo conto. A pensarci bene, sono soltanto due: non sono clandestino e parlo l’italiano. Due fattori decisivi per l’espansione gialla nel Bel paese. Leggo uno degli ultimi fatti di cronaca e mi rinfranco nella mia convinzione: una donna di 47 anni si è appena rivolta alla polizia per denunciare i suoi «laopainiang», i padroni sfruttatori che la pagavano 16 centesimi per ogni prendisole che riusciva a cucire Ma la notizia è un’altra: prima di trovare un lavoro stabile arrivata dalla Germania nel 2004, sono passati anni: nessun connazionale voleva addossarsi il rischio di assumere una clandestina. Troppi i controlli della polizia annonaria. Troppo alto il rischio di ritrovarsi con i capannoni se questrati. «I nostri concittadini ormai hanno paura a farci lavorare» confessa Shi Xianyu, un clandestino di 50 anni reso loquace dal comune e precario destino, incontrato all’ingresso di un internet point. Ex operaio metallurgico venuto dall’Heilongjiang, la regione delle fabbriche dismesse che sta producendo le ultime ondate di immigrazione dalla Cina, è disoccupato da mesi e dorme all’addiaccio nei parchi di Milano. Un cinese homeless: anche questa è nuova.
Il risvolto cinico della situazione però è evidente: fatevi avanti, giovani europei. E non fatevi scoraggiare dalla concorrenza spietata: in Italia un cinese su tre ha meno di 25 anni. Gli ultrasessantenni sono solo il 2 per cento, più o meno 3 mila persone (ecco perché i cinesi non muoiono mai). Tutti a caccia di lavoro. Sfruttando (anche questo va a mio svantaggio) la rete di sostegno economico e di prestiti fiduciari che i cinesi d’Italia, per il 90 per cento provenienti dalla regione dello Zhejiang [sono tutti «tongxiang»: paesani), si garantiscono l’un l’altro.
Quanto a me, non demordo. Mi presento dappertutto, mi dichiaro disposto a fare qualsiasi cosa, a lavorare senza limiti di tempo e senza riposo settimanale Ma forse non serve. La reazione è sempre la stessa: mi prendono per scemo. «E perché non vuole il riposo settimanale?» mi chiede la giovane e avvenente titolare di un bar che, racconta, ha già avuto un paio di italiani alle sue dipendenze. «Da me si lavora otto ore, c’è il giorno libero nel fine settimana più una mezza giornata feriale. Il problema sono la tredicesima e la quattordicesima. Noi quella non la diamo, ma gli italiani la pretendono». E poi, inatteso, salta fuori un altro ostacolo: «Italiani spesso fanno secondo lavoro e alla mattina arrivano già stanchi. Lei pensa di fare anche secondo lavoro?». Sta’ a vedere che gli stakanovisti siamo diventati noi. Si passa a parlare di stipendio e scopro che il trattamento non è dei peggiori: 800 euro al mese se fossi un cinese senza esperienza e senza la minima padronanza della lingua; per me 1.200. Lascio il curriculum. Mi farà sapere. In fretta mi rendo conto che gli italiani venuti a cercare lavoro prima di me non hanno lasciato una buona impressione. Me lo fa capire Pietro, per il mio primo vero colloquio, rimediato dopo una intensa giornata di ricerche. Lo incontro nello studio di grafica pubblicitaria che gestisce nel centro di Chinatown, anche se l’impiego che mi offre è un altro: consegne a domicilio per il sushi bar che ha appena aperto dalle parti di via mbonati: «Ho bisogno di uno che conosce bene la città» spiega.
Il giorno successivo mi presento all’appuntamento ma subito mi smonta: «Ci ho ripensato: assumo un cinese» dice con lafranchezza dei suoi 25 anni, già titolare di tré attività «pagate firmando cambiali fino al 2021». «Non te la prendere, ma con gli italiani ho lavorato quattro anni. Li assumi e cominciano a stare a casa al primo mal di testa». Vittima dell’invidia per il cinese che mi ha battuto per questioni razziali gli chiedo quanto avrei guadagnato: 900 euro al mese per sei ore al giorno, più riposo settimanale. «Metà in busta, metà in nero. Proprio come fanno gli italiani, giusto?».
In generale cercare un impiego a Chinatown può essere frustrante e la sensazione di rompere le scatole è netta. Sul posto di lavoro i cinesi infatti si dividono in due categorie: quelli che sgobbano così tanto da non poter essere disturbati e quelli che lavorano cosi poco da non poter essere svegliati. Tutti gli altri, impegnati a giocare al solitario, a navigare su internet o a guardare soap opera thailandesi sottotitolate in mandarino, di solito sono troppo annoiati per darti retta. Ma scoprire lentamente il sottobosco di italiani che collaborano e spalleggiano l’invasione cinese è illuminante: tante formichine individualiste che si aggiungono ai 2.400 impiegati, quadri e manager già assunti dalle grandi multinazionali come la Huawei e la Cosco.