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 2011  agosto 03 Mercoledì calendario

VITA AVVENTUROSA DELLE CELLULE

Siamo a Londra, intorno al 1665. Robert Hooke — un ex ragazzo-prodigio appassionato di biologia, fisica, astronomia e architettura — osserva col suo «microscopio composto» (un tubo con una serie di lenti) delle lamelle sottili di sughero. Vedendo delle pareti che circoscrivono degli spazi vuoti, decide di chiamarle «cellule» , perché gli ricordano le cellae, «piccole stanze» di un monastero. Ha scoperto l’unità morfologica e funzionale degli organismi viventi.
Dopo tre secoli e mezzo, quelle «piccole stanze» sono diventate l’oggetto primario delle nostre paure e delle nostre speranze. Consapevoli che dalla loro efficienza o dal loro malfunzionamento dipendono non solo la nostra sopravvivenza, ma i nostri movimenti, i ricordi e la vita affettiva, ci interessiamo a ogni minima acquisizione della genetica, della biologia molecolare o delle neuroscienze. E in effetti, le scoperte avanzano con frequenza impressionante. Negli ultimi tempi, ha fatto clamore quella di Shinya Yamanaka sulle cosiddette iPS (Induced Pluripotent Stem Cells), cellule specializzate (come i fibroblasti della pelle) che l’introduzione di alcuni geni può riportare allo stato originario di staminali pluripotenti, pronte a ri-specializzarsi a fini terapeutici. Il rischio, però, è un possibile sviluppo tumorale. Mentre è di questi mesi quella del 38enne Vania Broccoli (al San Raffaele, ma in concerto con l’IIT di Genova e la SISSA di Trieste) sulla possibilità di convertire gli stessi fibroblasti direttamente in neuroni produttori di dopamina (il neurotrasmettitore il cui deficit è alla base del Parkinson), senza passare per la fase staminale e aggirando così i rischi delle iPS. Sono scoperte, per inciso, che aprono versanti terapeutici eticamente inattaccabili, superando le obiezioni riservate alle staminali embrionali.
Ma questa vigilanza sull’attualità rischia di congelarsi in un’attesa meccanica (e un po’ messianica) se non supportata da un’adeguata conoscenza di base; se non entriamo in quelle «piccole stanze» , magari per arrivare a capire le regole che governano il monastero. Ce ne offre la possibilità il magnifico lavoro del grande biologo-embriologo inglese Lewis Wolpert (La vita segreta delle cellule, Orme). Ogni libro di Wolpert spalanca infatti— anche per la forza e la grazia insinuante della scrittura — paesaggi e prospettive sorprendenti: nella Natura innaturale della scienza, per esempio, aveva chiarito il carattere «controintuitivo» delle spiegazioni scientifiche, il loro procedere contro il senso comune dell’esperienza quotidiana; e nel suo libro più autobiografico (The Malignant Sadness, purtroppo non tradotto) coniugava il racconto del suo inabissamento depressivo a un’analisi a più livelli (genetica, neurobiologica, psicologica) della malattia.
In coerenza con questo taglio insieme «riduzionistico» e filosofico, Wolpert ci fa accedere alle dinamiche cellulari alternando due punti di vista. Da una parte, come nel famoso film Viaggio allucinante, ci rimpicciolisce alla grandezza di una molecola d’acqua per farci penetrare nel «caos apparente» di ogni singola cellula. Ma nello stesso tempo, «stacca» la telecamera sul nostro organismo nell’insieme, mostrandone ogni fase (dal concepimento all’invecchiamento) come l’esito di un’attività cellulare in cui coesistono in ogni secondo costruzione e distruzione, acquisizione e perdita.
Descrivendo l’interno della cellula (dall’ATP dei mitocondri alla permeabilità selettiva della membrana), Wolpert si concentra sulla sua chiave biochimica: il rapporto tra i geni e le proteine, in particolare tra i nucleotidi e gli amminoacidi, cioè tra le molecole unite in «stringhe» nel DNA (guanina, adenina, tianina e citosina, il famoso GATTACA) e le molecole delle proteine. Lo snodo è che «ogni sequenza di nucleotidi determina l’ordine di amminoacidi» . Potremmo paragonare tale rapporto tra «linguaggio genetico» e «linguaggio proteico» a quello tra partitura ed esecuzione orchestrale: anche se l’esecuzione non avviene nel nucleo (sede del DNA), ma nel citoplasma, dopo la trascrizione dell’RNA messaggero. A impressionare, nel micro-mondo, sono le cifre sulla densità e la velocità della materia biologica: non solo i 30 mila geni per ogni cellula o la lunghezza del DNA di tutte le cellule (200 volte la distanza Terra-Sole e ritorno), ma le 100 mila interazioni al secondo degli enzimi, i 96 mila chilometri di vene e arterie (queste ultime assottigliate in 40 miliardi di capillari) o il miliardo di sinapsi, nell’embrione, per ogni porzione cerebrale grande come un granello di sabbia.
Spostandoci verso l’insieme, seguiamo proprio lo svilupparsi del «programma
generativo» dell’embrione, in cui ogni stato determina il successivo, come in un origami la cui figura finale non sia intuibile dalle prime piegature. Tutto dipende dall’ «informazione posizionale» della cellula (concetto elaborato da Wolpert) e, di nuovo, dalla relazione geni proteine: relazione biunivoca, perché anche le proteine inviano segnali ai geni. È infatti solo grazie alla cadenza coordinata tra i geni (attivi o inibiti) e le proteine (prodotte nel luogo giusto al momento giusto) che le cellule capiscono «cosa fare e dove andare» , dividendosi (replicandosi) e specializzandosi, trasformandosi così da cellule indifferenziate (come le staminali) in cellule della pelle, dei muscoli o del cervello. Qui l’orchestrazione diventa una vera e propria scultura dinamica, sia «per via di porre» (vedi le migrazioni cellulari a formare organi e tessuti o l’emozionante «esplorazione» delle diramazioni nervose degli assoni), sia «per via di levare» , con l’apoptosi (la «caduta delle foglie» ) che fa suicidare per esempio le cellule della membrana palmare, cesellando la forma delle dita.
Con un ulteriore allargamento visuale, Wolpert riconduce le patologie cellulari (e in generale la vecchiaia e la malattia) alle dinamiche dell’evoluzione e della selezione naturale. L’invecchiamento dipende soprattutto dalla divaricazione tra le cellule germinali (sperma e ovuli) e quelle somatiche (tutte le altre): se la spinta evolutiva è la riproduzione, solo le prime sono «immortali» , mentre le seconde diventano via via trash biologico, usurandosi a livello di DNA e proteine: decisivo è il consumarsi dei telomeri, parti terminali (e protettive) dei cromosomi che si accorciano a ogni divisione cellulare. Ma anche il cancro è costitutivo della macchina biologica, perché la selezione procede attraverso un brulichìo di variazioni e mutazioni, come quelle (rapide e altamente flessibili) proprio alla base del tumore, la cui replicazione cellulare sfugge alle «normali restrizioni» . Tra le cause, lo stesso accorciamento dei telomeri, invece continuamente rigenerati— per ironia nera, almeno nella nostra prospettiva— nelle cellule tumorali.
Il paesaggio spalancato da Wolpert ci ricorda che il corpo e il nostro genoma non sono monadi isolate, ma forme del vivente in coesistenza con altre, spesso invisibili: a volte in competizione e in collaborazione, come coi batteri; a volte solo in competizione, come con gli «zombie chimici» dei virus. E ci ricorda che dalla prima cellula e dai primi organismi pluricellulari (forse conseguenza del cannibalismo dei monocellulari) fino alla nostra complessità neurale, la morte non è il «lato scuro» della vita, ma il contrappunto sostanziale della sua musica.
Sandro Modeo