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 2011  agosto 03 Mercoledì calendario

MENO MALE CHE È CASTO

Quando si parla di Immanuel Casto, la tendenza bigotta è quella di sottacerne i titoli (nel senso di canzoni). Al contrario, sono la prima cosa da elencare, poiché altamente esplicativi: Deflorato, Culi infranti, Bondage, Io la do, Anal Beat, Che bella la cappella, Gargarismo indecente, Fellatio… che passione!, 50 bocca/100 amore. Roba forte. Se non esistesse davvero, e non si prendesse incredibilmente sul serio, sembrerebbe un personaggio uscito da una canzone parodistica di Elio e le Storie Tese. Oppure un produttore di B-movies, che tra una ventina d’anni il Tarantino di turno sdoganerebbe. Invece non c’è niente da rivalutare, perché il ragazzo ha successo.
MANUEL CUNI, 28 anni da Alzano Lombardo. Nome d’arte, kantiano-godereccio, Immanuel Casto. Sul web spopola fin dall’irrinunciabile Vento di erezioni (2004). Quasi 900 mila accessi su Youtube per i brani più cliccati. I fans lo hanno ribattezzato “Il Casto Divo”, con buona pace di Callas e Bellini. Inizialmente Wikipedia lo boicottava: adesso che esiste sia la voce ufficiale che quella di Nonciclopedia, siamo tutti più sereni. Casto si è autoproclamato “Principe del porn groove”. Testi (teoricamente) ironici che parlano (solo) di sesso spinto, impreziositi da tappeti lounge e chill out (uh). Considerando che Cuni si ispira anzitutto alla dance anni Ottanta, ovvero il punto più basso mai toccato dal suono, lo si può definire – per attenersi alle parafilie erotiche – un musicista masochista. Furbo, però. Molto furbo. “Il mio passato da Art Director mi ha fatto comodo. Oggi la maggior parte delle spese di un progetto musicale va nelle strategie di marketing. Vince
chi ha talento non nella musica, ma nella comunicazione”. Oppure (dichiarazioni a Repubblica): “Il sesso è oggetto di un paradosso. È ovunque, in modo conclamato. Nelle pubblicità, sulle copertine delle riviste più patinate, in televisione. Parlarne rimane un tabù. L’ironia mi aiuta a far passare temi scabrosissimi. Come la pedofilia nella Chiesa o l’orrore del turismo sessuale. Un impegno rovesciato in senso sarcastico che fa riflettere più di quello, chessò, dei cantautori storici”. Urge dunque citarli, questi testi “rovesciati” che riducono (“chessò”) i De Gregori a pizzicagnoli: “Ogni orifizio è qui da provare/uno sfintere d’altomare”; “Io la do, io la do, io la do al mondo intero”; “Perché lavorare in un call center/quando potrei fare pompini in Costa Smeralda?”; “Ecco il prete che mi benedirà/d’acqua santa costui mi schizzerà /Sacerdote credo in te/ ma ora dimmi che cos’è/ quello che tu mi stai mettendo in mano”. Omosessuale dichiarato e icona gay (“Ma non voglio ghettizzarmi”), negli ultimi dischi si è edulcorato (vabbè). Si autoproduceva, ora è targato Universal.
PARADOSSALMENTE i network – soprattutto Radio Deejay – lo trasmettevano di più prima. La pseudo-normalizzazione gli ha comunque regalato speciali su Mtv e un ruolo da opinionista a Loveline: traguardi di una vita. Cuni è un incrocio anacronistico e raffazzonato tra Frankie Goes To Hollywood, Wham e Righeira. Nel suo sito si definisce (da solo) “artista poliedrico” e mette in vendita magliette epocali: “Aprimi il Pc-Formattami l’hard disk” (per uomo), “Montami la Ram-riempimi di spam” (per donna). Costo: quasi 30 euro. La sua estensione (vocale) mette tenerezza e la capacità interpretativa, ad esempio nel video Che bella la cappella, ricorda gli attori della telenovela piemontese su cui ironizzava la Gialappa’s. I testi, a metà tra il gioco di parole da avanspettacolo e l’ammicco all’attualità (Escort 25 sarebbe una “satira” del bunga bunga), trasudano pochezza. Arduo chiedersi perché abbia successo: siamo al metafisico, all’insondabile. Oppure, più prosaicamente, all’iper-paraculismo. Di sicuro Cuni non ha nulla dello sprovveduto, calcolando scaltramente ogni mossa. Prototipo cibernauta del situazionista irriverente, è una sorta di Raffaello Carrà sboccato. Le sue elucubrazioni ormonal-trash non vanno troppo oltre il “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”; i suoi hit non sono che Tuca Tuca post-moderni. Cuni fa leva sull’idea di opposizione vaga al sistema, sul lessico “gggiovane”, sul desiderio di peccaminosità a buon mercato. Sulla battutaccia travestita da urticanza. Sull’effetto basso-ridanciano, né più né meno delle barzellette mela-vulvari di Berlusconi. In tempi avarissimi di iconoclasti, al nobile quotidiano iberico El Pais è persino toccato di elevare il patinato bergamasco a spauracchio italico dello strapotere clericale. Troppa grazia: Immanuel Casto è un Pasquino stonatello e artisticamente esangue. Gioacchino Belli caricaturale, Cecco Angiolieri pleonastico. Se fosse foco, non arderebbe niente.