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 2011  agosto 02 Martedì calendario

MAZZINI CONTRO ENGELS: RIVOLUZIONE PROLETARIA E DEMOCRAZIA EUROPEA

Uno dei libri per me più formativi è stato Democrazia e definizioni di Giovanni Sartori, che ho letto appena uscito, nel lontano 1957: un libro chiave per comprendere ambiguità ed equivoci intorno a questa parola, ancor oggi abusata nel vocabolario politico. Quelle pagine mi sono tornate in mente appena ho cominciato a leggere il nuovo saggio che Salvo Mastellone— attivissimo decano dei nostri storici — ha dedicato a Tre democrazie, apparso nella collana «Politeia» del Cet, Centro editoriale toscano (pp. 252, € 20). Illustrare queste «tre democrazie» significa ricostruire un dibattito molto importante (ma ancor oggi pochissimo approfondito) che su alcune riviste londinesi — come «The Red Republican» , «The Friend of the People» e «The English Republic» — ha visto impegnati, fra il 1850 e il 1855, alcuni dei maggiori esponenti del pensiero politico europeo: da Mazzini a Engels, per intenderci, ciascuno dei quali tendeva a chiarire, o addirittura a imporre, quella che considerava come la vera, l’autentica, addirittura l’unica democrazia, da costruire. Il più duro e intransigente si rivela Friedrich Engels, il compagno di Marx, che allora viveva esule in terra inglese e, per evitare di finire espulso, doveva ricorrere a pseudonimi, firmandosi Howard Merton o J. G. Eccarius, quando voleva sostenere le proprie tesi. Appare così il più estremista, perché sostiene quella che Mastellone definisce efficacemente come «democrazia proletaria» . Infatti, Engels non si limita a denunciare la miseria crescente, che starebbe mettendo l’attuale società borghese «sull’orlo della rovina e della dissoluzione» ; ma convintissimo (come già aveva ribadito nel Manifesto, scritto con Marx nel 1848) che la società è divisa in due grandi classi, «il ricco e il povero, il capitalista e lo schiavo salariato, il privilegiato e il non» , sostiene che solo «il proletariato rivoluzionario» sarà capace di avere presto partita vinta, e dar vita al nuovo, provvidenziale sistema di «democrazia proletaria» . A un simile progetto engelsiano viene contrapposta la tesi, cara al movimento cartista britannico (che fondava il proprio programma riformatore sulla «Carta del popolo» ) secondo cui l’importante — come sosteneva Julian Harney — non è affatto privilegiare la classe proletaria, ma riuscire ad assicurare un’autentica «democrazia sociale» , in grado di garantire (pur senza ricorrere alla violenza rivoluzionaria) libertà e uguaglianza al maggior numero dei cittadini, a cominciare dai lavoratori inglesi. Nel dibattito interviene anche Giuseppe Mazzini, che in quegli anni aveva trovato rifugio a Londra. Era costretto alla vita di esule (tant’è vero che rimarrà lontano dall’Italia ben 38 anni, di cui quasi un quarto di secolo oltre Manica) — e non aveva perso tempo a farsi sostenitore di una «democrazia europea» , convinto — fin dal 1834, quando a Berna aveva fondato la Giovine Europa — che bisognava superare i confini nazionali, per costruire insieme un più vasto ordinamento democratico, in grado di coinvolgere un po’ tutti i Paesi del continente. Dunque, Mazzini non solo va al di là della «democrazia sociale» , ma soprattutto contesta il modello classista della «democrazia proletaria» . L’unico, autentico protagonista dev’essere il popolo — mette bene in luce Mastellone —, il popolo in grado di diventare il vero «soggetto politico» e realizzare finalmente «un governo, eletto con suffragio universale da tutti i cittadini liberi e uguali» . Già alcuni anni fa, Mastellone aveva avuto il merito di dare alle stampe il volume Pensieri sulla democrazia europea (Feltrinelli, 1997), che raccoglieva questi articoli mazziniani, dove è netto il dissenso con chi vuole privilegiare il ruolo del proletariato, e ancora più evidente è la polemica con chi pretende che sia una minoranza a prendere in mano il potere politico. «Le forze della democrazia sono immense» , si legge nel «Manifesto sulla democrazia europea» (che Mazzini firma insieme agli altri componenti del Comitato della democrazia europea, da Alexandre Ledru-Rollin a Arnold Ruge, a Albert Darsz), ma occorre che «da Parigi a Vienna, da Roma a Varsavia» tutti i popoli ne siano coinvolti, nel segno comune della solidarietà, della fratellanza: senza pretese di primati o, al contrario, di inammissibili esclusioni. Conseguenze? In passato, abbiamo assistito al fallimento delle democrazie «proletarie» , tipiche dei Paesi comunisti; oggigiorno un po’ di democrazia «sociale» si registra in alcuni Stati; ma quanto dovremo ancora aspettare per veder diventare operante un’effettiva democrazia «europea» ?
Arturo Colombo