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 2011  agosto 01 Lunedì calendario

Boranga , il portiere che ha respinto l’età - Quello che è rimasto di Lamberto Boranga non è solo l’immagine di un tempo, - un sorriso con i baffi e quelle maglie strette come dei collant -, e non sono i colori di una foto incollata alle memorie dei giorni che sfogliamo nei libri di storia

Boranga , il portiere che ha respinto l’età - Quello che è rimasto di Lamberto Boranga non è solo l’immagine di un tempo, - un sorriso con i baffi e quelle maglie strette come dei collant -, e non sono i colori di una foto incollata alle memorie dei giorni che sfogliamo nei libri di storia. Lamberto Boranga faceva il portiere: Fiorentina, Cesena, Reggiana, Perugia. Il bello è che adesso lo fa ancora: sta andando ad allenarsi in una squadra di seconda categoria, il Papiano, si chiama così. Ma il 30 ottobre lui farà 69 anni, ed è come se gli anni si fossero fermati, anche se è cambiato tutto, e c’è un altro mondo dentro di noi. Il 16 febbraio 1976, una domenica di freddo e di cieli bassi, allo stadio di Cesena, salutò i suoi tifosi con il pugno chiuso. Quel gesto divenne simbolo di un’epoca, come la barba di Paolo Sollier, come le cronache di Gianni Brera, lo scudetto del Torino e la Juve di Trapattoni, che stava per arrivare. Era il mondo del calcio. Boranga diceva che lui era un uomo di ideali e che gli piacevano Berlinguer e Che Guevara. Appena poco tempo fa, ha cercato di farsi eleggere nelle file della Lega al consiglio comunale di Reggio Emilia. E ora dice che «la Lega è l’ultimo partito di sinistra rimasto». Non importa se ha ragione o no. Nelle vite che si incrociano, la sua è una pagina che non finiremo mai di leggere. Cominciò quella domenica del 16 febbraio 1976. «Fu l’unica volta che feci il pugno chiuso in campo. Cesena-Roma due a due. Cordova batte a colpo sicuro di testa, io paro e salvo il risultato. La curva mi osanna e io li ringrazio così, con quel gesto. Avevo un atteggiamento rivoluzionario, ma non ero un militante. Eravamo giovani, baldanzosi e privilegiati. Pensavamo di combattere il potere, il capitalismo e per il proletariato». Oggi Lamberto Boranga fa il medico a Perugia. Ha uno studio abbastanza affermato: fra i suoi pazienti c’è anche Emanuele Filiberto di Savoia, che martedì viene qui per una visita di controllo. Fino a poco tempo fa lavorava nella Asl numero 2. S’era laureato proprio quando faceva il portiere. Due lauree: medicina e biologia. Per questo dicevano che era un intellettuale nel mondo calcio. Adesso che ha quasi 70 anni, invece, il dottor Boranga vince tutti i titoli possibili di atletica leggera, per quelli della sua età. Nel 2009 ha vinto i campionati italiani di lungo, alto, triplo, decatlon, pentatlon, eptatlon. Nel 2008, agli Europei di Lubiana, aveva ottenuto il record mondiale di salto in lungo over 60. Oggi che è un professionista affermato non finisce più di stupire con lo sport. Così, l’altro giorno ha pure annunciato che tornerà a difendere i pali di una squadra di calcio, il Papiano: «Non voglio niente di scontato. Se sono bravo, gioco. Se no, no». Non c’è niente da spiegare, dice: «E’ che il calcio mi è entrato nell’anima, è una passione infinita». Per questo non ha mai smesso di farlo: «Ho giocato fino a 45 anni, nel Foligno, serie C2, stagione 1986/87». Quando ha appeso le scarpe al chiodo, le lauree ce le aveva già: «Io giocavo in serie A e studiavo. La prima laurea l’ho presa nel 1967, a Parma, biologia. E 10 anni dopo, di nuovo a Parma, medicina». Nel frattempo girava, da Reggio Emilia a Firenze, a Brescia. E in quel famoso 1976 era a Cesena. Quello era l’anno in cui Bettino Craxi venne eletto segretario del Psi. Cominciava un’era. Il 14 gennaio usciva il primo numero della Repubblica di Eugenio Scalfari. La Corte di Cassazione condannava «Ultimo tango a Parigi», di Bernardo Bertolucci, e ordinava di bruciare tutte le copie del film. Scoppiava lo scandalo Lockheed, con Mario Tanassi e Mariano Rumor fra gli inquisiti. A giugno ci furono le elezioni, e Indro Montanelli scrisse una frase che passò quasi alla storia: «Turatevi il naso, ma votate Dc». E alle elezioni, la Dc vinse con il 38,8 per cento dei voti. Il Pci era il secondo partito, con il 34,4. In autunno, l’inaugurazione della Scala a Milano fu turbata da una clamorosa contestazione, con lancio di uova sulle pellicce e molotov contro la polizia: stava nascendo il movimento del ‘77, un’altra pagina ribelle della nostra storia. Era l’anno del terremoto in Friuli, e in Argentina un feroce colpo di stato militare portava al potere il generale Videla. In quel clima, sospeso tra la violenza e la paura, mentre a Torino cominciava il processo alle Brigate Rosse, anche il calcio viveva una stagione strana. Nel Perugia di Ilario Castagner che era appena salito in serie A, spiccava la barba lunga di Paolo Sollier, uno che si definiva «calciatore professionista e compagno militante». Lui era di Avanguardia Operaia. Avrebbe fatto anche lo scrittore («Calci, sputi e colpi di testa»). A Roma, gli spalti delle due squadre della capitale erano drasticamente divisi: con la Lazio l’estrema destra, con i giallorossi la sinistra. Tutto sembrava politica. Lamberto Boranga dice che «nel Pci non si era mai identificato». Però, era affascinato dalla figura di Enrico Berlinguer, perché gli sembrava «vicino alla gente». Adesso il mondo è tutto diverso. Il Pci non c’è più, è finito, «come il Risorgimento, come il medioevo». E di quell’epoca, in fondo, è rimasto solo il calcio, «perché per me è sempre uguale», come dice lui, «anche se adesso guadagnano molto di più, ci sono tutte queste televisioni, ci sono le pressioni dei media e i calciatori sono diventati dei divi». Sollier fa l’allenatore nei dilettanti. Castagner il commentatore alla tv. Molti dei suoi colleghi sono rimasti ai margini del calcio. Solo lui è tornato fra i pali. Ha messo su famiglia, ha tre figli, Barbara che fa il medico, Linda la stilista, e Eugenio che s’è laureato in economia e commercio. Ogni tanto racconta di quegli anni. E la cosa strana è che qualcuno gli chiede se era vero. Sembrano così lontani, oggi.