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 2011  agosto 01 Lunedì calendario

La città da sempre ribelle “Le nostre vie un cimitero” - Il premier turco Erdogan aveva detto che non avrebbe permesso una nuova Hama e invece è esattamente quel che sta accadendo qui» ripete al telefono l’ingegnere di sinistra Amjad, mentre i carri armati del regime incalzano la Venezia siriana affacciata sul leggendario Oronte, in arabo Nahr al Assi, il fiume ribelle, l’unico a fluire in senso opposto a tutti gli altri della regione

La città da sempre ribelle “Le nostre vie un cimitero” - Il premier turco Erdogan aveva detto che non avrebbe permesso una nuova Hama e invece è esattamente quel che sta accadendo qui» ripete al telefono l’ingegnere di sinistra Amjad, mentre i carri armati del regime incalzano la Venezia siriana affacciata sul leggendario Oronte, in arabo Nahr al Assi, il fiume ribelle, l’unico a fluire in senso opposto a tutti gli altri della regione. Aveva un anno nel 1982, quando il defunto presidente Haafez al Assad bombardò pesantemente la sua città per vendicarsi di un tentativo d’attentato e reprimere la rivolta capitanata dai Fratelli Musulmani locali uccidendo 20 mila persone. Ma come chiunque degli attuali 700 mila abitanti, indipendentemente dal proprio credo politico o religioso, Amjad è cresciuto nel ricordo di quei dieci giorni che segnarono per sempre la memoria collettiva e oggi, nel mezzo dell’offensiva governativa contro i ribelli, è in prima linea, quasi avesse aspettato finora la catarsi, il momento della resa dei conti. Hama ha impiegato più tempo di altri capoluoghi siriani ad affiancare la rivolta divampata a marzo nella provincia meridionale di Daraa e costata almeno 1500 morti, un migliaio di desaparecidos e oltre 20 mila arresti. Ad aprile, mentre da Latakia al sobborgo damasceno di Duma i dissidenti sfidavano già frontalmente i militari garanti del potere alawita, Hama sembrava quieta, non riluttante al muro contro muro come le borghesi Aleppo e Damasco ma guardinga. «L’82 fu la nostra Guernica» raccontava allora il pittore cinquantasettenne K.K. svelando nel retrobottega odoroso di tabacco del suo studio in pieno centro i disegni sanguigni del massacro all’indomani del quale aveva abbandonato lo stile figurativo. I passanti abbassavano circospetti la voce per indicare la sagoma imponente e minacciosa del Cham Palace, l’hotel parastatale sorto sulle macerie delle case e delle ruote idrauliche spianate 29 anni prima, mentre tra i custodi della grande moschea, epicentro della storica insurrezione, c’era chi mostrava le cicatrici con cui aveva pagato la disobbedienza nel carcere di Tadmur, la bestia nera di Amnesty International. La cifra però era il silenzio, bocche serrate e sguardi complici a seguire l’evolversi degli eventi. A distanza di quattro mesi Hama è diventata il simbolo della protesta, l’icona della paura sconfitta che all’inizio di luglio, nonostante la rimozione del governatore provinciale filogovernativo, ha portato in piazza mezzo milione di oppositori guadagnandosi la visita extra protocollo degli ambasciatori americano e francese a Damasco e l’ira degli Assad. Non a caso, sostiene l’esperto del Royal United Services Institute di Londra Shashank Joshi, che ieri, alla vigilia del mese sacro di Ramadan, l’escalation «dimostrativa» della repressione è partita da qui. «Tra i manifestanti ci sono molti religiosi, è vero. Ma non sono fondamentalisti come li descrive il regime: sono musulmani normali, disarmati e soprattutto bene integrati con il resto della popolazione che anche in virtù del passato indimenticabile è molto unita» osserva lo studente Basel, nato a Daraa 22 anni fa e iscritto all’università di Hama. Ha lasciato la sua città adottiva venerdì, dopo aver partecipato all’ennesimo corteo di protesta: ignora quando la ritirata dei carri armati gli consentirà di tornare in facoltà a nascondere tra i manuali di economia i volantini dei Local Coordination Committees, i comitati rivoluzionari che hanno appena convocato uno sciopero generale per onorare il sangue versato ancora una volta ad Hama. Le voci giungono afone dai quartieri sotto assedio da un mese e sotto tiro dalle 5 di ieri mattina, quando, nella ricostruzione di un residente, «l’artiglieria pesante ha preso a picchiare da quattro diverse direzioni e luce e acqua sono state tagliate». Tra i negozi del vecchio centro, i canali in cui si specchiano i mulini ad acqua residui e i minareti bianchi delle venti moschee, le ragazze velate si mescolano a quelle vestite all’occidentale come sempre, prova d’una società mista da cui il dissenso definito «ecumenico» dal settimanale «The Economist» sgorga senza marchi religiosi. Ma i ribelli giurano che il dado è tratto e nulla sarà più «come sempre», a cominciare dai cecchini sui tetti e dalle barricate lungo le strade dominio di «criminali comuni» secondo Damasco e secondo il presidente dell’Osservatorio siriano per i diritti umani Abdel Rahmane «cimitero all’aria aperta di decine di corpi tra cui donne e bambini». «Siamo a una manciata di chilometri ma nel 1982 non sapevamo cosa stesse succedendo ad Hama» ammette un abitante di Homs, il polo industriale siriano che al principio della scorsa settimana ha assaggiato le prime avvisaglie della linea dura decisa dal presidente Bashar al Assad. Oggi è diverso. Districandosi tra le maglie della censura le notizie volano e sulla riva dell’Oronte Hama attende il cadavere di un nemico feroce ma sempre meno capace di dividere e imperare.