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 2011  luglio 31 Domenica calendario

INTERVISTA A MARIO MARTONE

Roma, l´aria timida da bravo studente, occhialini tondi, modi garbati, l´aspetto di saggio distacco, Mario Martone ce l´ha sempre avuta: a vent´anni quando già lo circondava l´aura ipercult dell´artista d´avanguardia, e oggi a cinquantadue, amato e affermato regista di cinema e teatro, direttore di uno dei più importanti teatri pubblici italiani, lo Stabile di Torino. Seduto al bar, in un caldo pomeriggio romano, pantaloni blu, camicia blu, poggia sul tavolino accanto all´acqua un bel libro sui tanti lavori che ha realizzato a Torino per i 150 anni dell´Unità d´Italia e mostra un sorriso rilassato. «Mi sento già in vacanza - dice - Certo, dovrei prima finire di liberare lo studio, ancora invaso da tutto quello che mi è servito per il film: libri, articoli, documenti di storia che adesso finalmente posso rimettere negli scaffali, dopo tanto tempo». Il film, naturalmente, è Noi credevamo, sette David, premi e riconoscimenti di pubblico e critica e ora, si dice, possibile candidato italiano all´Oscar.
Per sei anni la vita di Mario Martone si è confusa con quella di questo film, tra molti entusiasmi e molti affanni. «Se mi volto indietro, mi paiono sei anni vissuti pericolosamente - dice mentre si accende una delle poche sigarette della giornata - l´idea del film è del 2003, ho iniziato a lavorarci nel 2004, poi sono arrivate le difficoltà. Immense. I produttori erano spaventati dal tema perché il Risorgimento non è abbastanza glamour, dalla durata della storia, dai costi... Ho lavorato con l´obbligo di non sforare di un giorno le riprese per non far lievitare le spese. Tutto è stato pazzesco. Ma con orgoglio posso dire di non aver mollato, ho continuato a studiare, a prepararmi, a lavorare. Alla fine l´entusiasmo del pubblico ha come girato la medaglia. E tutto è stato così appagante per me. Quello che mi fa più piacere è che il film ha riaperto il confronto con una grande stagione politica della nostra nazione, una radice politica piena di contraddizioni, fatta di sconfitte e di speranze, di cui noi siamo figli».
Martone incarna un modo poco italiano di essere artista: sapiente ma senza tic intellettuali, operoso ma senza esibizionismi, abituato a guardare avanti ma senza perdere la concretezza. «Sono un´anima sognante ma coi piedi per terra, e in questo rivedo i miei genitori. Mamma era una donna che amava la cultura e mi ha trasmesso l´amore per il cinema e i libri. Mio padre era un artigiano, un uomo abituato a fare più che a pensare. Questa commistione per me è stata importante: mi sento una persona che ha a che fare col pensiero, ma che si sa rimboccare le maniche e lavorare».
È nato e ha vissuto a Napoli, a Chiaia, primo di due figli maschi. Con tono sornione racconta che al liceo, lui e Toni Servillo andavano di pomeriggio alla Galleria Lucio Amelio dove arrivavano gli artisti internazionali e alla cineteca di Mario Franco. «Soprattutto ci trovavamo nel Teatro Spazio Libero che era una sorta di Beat 72 di Napoli, cioè dove si faceva l´avanguardia. E dal ´76, almeno, andavamo a Roma a vedere gli spettacoli. Tornavano a Napoli la notte, in treno per essere a scuola l´indomani. La scuola andava così e così, ma in compenso imparavamo un mucchio di altre cose. L´avanguardia teatrale degli anni Settanta fu per tanti giovani una scoperta: era il ribaltamento di quello che pareva scontato. Io andavo a teatro con la scuola, ma quasi sempre gli spettacoli di prosa tradizionale mi annoiavano, mentre a Roma vedevo cose magari per quattro persone che però mi rovesciavano il cuore. Non parliamo poi quando scoprii Carmelo Bene».
Ostinato, a diciotto anni fonda un gruppo dal nome forse un po´ ostentato, I Nobili di rosa, da un´antica moneta alchemica. «Ma l´alchimia c´entrava: mescolare gli elementi in qualcosa di inaspettato rispetto al punto di partenza è il processo dell´arte». L´esplosione due anni dopo, nel ´79 con Falso Movimento, ancora oggi ricordato come uno dei gruppi che hanno fatto la storia della sperimentazione teatrale italiana, un collettivo spericolato di attori (alcuni applauditi nei loro percorsi successivi, come Andrea Renzi e Licia Maglietta) che impone un clima espressivo nuovo, dove cinema, teatro e musica hanno un rapporto stretto e una funzione rappresentativa più che tecnica. Falso Movimento segnò un salto di qualità nella scena italiana e Tango glaciale il suo spettacolo-manifesto dell´82, un successo in tre continenti.
Martone ne è ancora orgoglioso. «Quello spettacolo nacque al Teatro Nuovo di Napoli pieno di puntelli per il terremoto e fu una cosa incredibile, nacque in un rapporto fortissimo con la città oltre che dal mio amore per il cinema, specie per Godard. Poi, come spesso mi è capitato a un certo punto sento il bisogno di cambiare, di mettere in discussione quello che è sicuro. In Falso Movimento avevamo chiamato a lavorare con noi Antonio Neiwiller e Toni Servillo. Proposi loro di sciogliere ognuno la propria compagnia e creare tutti insieme un organismo nuovo. Nacque Teatri Uniti che è ancora oggi una esperienza unica: c´era sì, il nostro gruppo di base, ma diventarono più frequenti gli attraversamenti dal cinema al teatro e viceversa e gli incontri con altri artisti, Leo De Berardinis, Enzo Moscato con cui feci Rasoi, Fabrizia Ramorino che venne a scrivere Morte di un matematico napoletano, il mio primo film. Sono stati anni meravigliosi. Eravamo un gruppo di personalità forti ma più forte era l´idea del "cantiere di lavoro" del progettare con gli altri. I miei tre film napoletani, Morte di un matematico napoletano, L´amore molesto e Teatro di guerra nacquero in quel fervore creativo che forse non si è mai più ripetuto. E poi a Napoli».
La Napoli di Martone è più interiore che vistosa. «È difficile per me parlarne perché a Napoli devo tutto e la amo profondamente, le ho dedicato spettacoli teatrali e film e ancora attingo da lì, ma è una città feroce, strana, che ti si può chiudere addosso e improvvisamente aprire. È leopardiana, vive questo senso infelice del nulla e dell´ineluttabilità del tutto ma, allo stesso modo di Leopardi che nel movimento di una pianta mossa dal vento ritrova il senso della vita, Napoli ti riporta, appunto, la vita».
Tutt´altra storia il «corpo a corpo», come lo chiama lui, con l´amatissima Roma che per Martone inizia nel gennaio ´99 quando ci si trasferisce da direttore del Teatro di Roma, suo primo traguardo nell´ufficialità dell´establishment teatrale e dove ci resta fino al dicembre del 2000. Due stagioni in cui è successo tutto. «Tanto per cominciare è nato il Teatro India come spazio dedicato ai nuovi linguaggi. Ricordo che andavo personalmente da chi doveva fare la cabina elettrica, per esempio, perché avevo capito che se passavo per vie amministrative non avrei fatto nulla. Poi però la mia idea di dare al pubblico una visione diversa del teatro fu presa come un´intrusione, il sistema teatrale romano cominciò la tenaglia. A distanza di tempo, credo che già allora il paese cominciasse a cambiare, già soffiava il vento che ha portato alla chiusura degli anni successivi. Quanto a me, nella mia vita ho cambiato molte volte contesti. C´è una frase del Coriolano di Shakespeare che dice: "C´è un mondo altrove, c´è sempre un mondo altrove". E poi io non credo alle direzioni a vita dei teatri pubblici. Da noi i direttori sono delle maestà e le monarchie non mi piacciono».
Da quattro anni ha ricominciato una nuova avventura a Torino, «città bella, civile, che guarda al futuro». In teatro ha il sostegno entusiasta della presidentessa Evelina Cristillin e «di un pubblico straordinario». A Torino Martone però non abita. Fa avanti e indietro con Roma dove ha preso casa con Ippolita Di Majo, sua moglie da dicembre, drammaturga, e dove c´è la figlia Luisa, otto anni, che vive a Trastevere con la mamma. Da direttore, non riempie di sue regie il teatro di Torino, ha chiamato altri colleghi: Gabriele Vacis, Valter Malosti, Valerio Binasco, quest´anno Andrea De Rosa, Marco Tullio Giordana, gli sperimentali Marcido Marcidorjs e, dopo la sfida a se stesso di portare in palcoscenico le Operette morali di Leopardi che verranno riprese tra un anno visto il successo, progetta un nuovo spettacolo per il 2013. Intanto c´è la lirica, la regia di Fidelio al Regio di Torino e Luisa Miller alla Scala, ma prima, a settembre, torna a Venezia, dopo il concorso dello scorso anno, e stavolta con più leggerezza, da giurato, accanto a colleghi di assoluto prestigio come André Téchiné, David Byrne, Todd Haynes, l´artista visiva e regista finlandese Eija-Liisa Ahtila, Alba Rohrwacher e Darren Aronofsky presidente.
Vuole anche fare un altro film senza far passare troppo tempo. Sta pensando a un docufilm sui Saharawi, idealmente legato a Noi credevamo perché tocca la storia di una tribù del Nordafrica che chiede l´indipendenza da quasi un secolo. «Non mi spaventa. Cinema e teatro non sono per me la ripetizione di un modello. Anzi, considero il processo di lavoro più importante del risultato e nei tanti passaggi del mio lavoro rivendico come una continuità il non aver dato nulla per scontato. Se penso al ragazzino di Tango glaciale chiuso nella stanzetta a fare i collage, non è diverso dal me di oggi che ha passato sei anni sui libri di storia dell´Ottocento italiano per fare un film su Risorgimento... Per entrambi non dare nulla per scontato è un´azione esistenziale. Ma anche politica».