Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  agosto 01 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 1 AGOSTO 2011

Dal 20 luglio è ufficiale: in Somalia c’è una spaventosa carestia, la peggiore degli ultimi anni (da 20 a 60 a seconda delle fonti). Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu: «Dappertutto nel Corno d’Africa la gente sta morendo di fame. Una combinazione catastrofica di guerra, prezzi alti e siccità ha lasciato più di 11 milioni di esseri umani in uno stato di bisogno disperato». Melania Di Giacomo: «La mancanza di pioggia per due stagioni consecutive ha impedito di ottenere buoni raccolti, la gente ha mangiato le sementi, e la carestia ha portato la popolazione allo stremo». Mark Bowden, coordinatore umanitario Onu: «È probabile che decine di migliaia di persone siano già morte, nella maggior parte bambini». [1]

Da almeno sei mesi le Ong lanciavano allarmi sulla siccità. Roberto Bongiorni: «La crisi era prevedibile. Si poteva prevenirla, almeno in parte. Evitare che morisse il 90% del bestiame, principale fonte di sostentamento in Somalia. Complici le rivolte arabe e la crisi finanziaria ci si è mossi troppo tardi, e, per ora, troppo poco». [2] Pietro Veronese: «Le Nazioni Unite non si possono permettere di lanciare falsi allarmi. Ci sono indicatori precisi da verificare; riscontri concreti da raccogliere sul terreno. Cosicché quando si usa infine la parola “carestia” essa è già una realtà conclamata, con le sue centinaia di morti, le migliaia di profughi, il collasso universale delle infrastrutture. A tali condizioni, l’allarme è tardivo per definizione». [3]

La comunità internazionale ha fallito nel costruire la sicurezza alimentare dei Paesi poveri. Bruno Le Maire, ministro dell’Agricoltura francese: «Se non prendiamo subito le misure necessarie questa carestia sarà il peggior scandalo del secolo». [3] Con Etiopia, Kenya, Gibuti, Sud Sudan, sono cinque i Paesi colpiti dalla carestia. Bongiorni: «Ma è nella disastrata Somalia che la situazione è precipitata. Qui nelle regioni centro meridionali controllate dagli Shabaab, gli estremisti islamici vicini ad al-Qaeda, due vaste aree hanno già raggiunto il livello massimo, il 5°. Quello che indica “famine”, (carestia). Vale a dire aumento del 30% di malnutrizione acuta per i bambini con meno di 5 anni, tasso di mortalità giornaliero superiore a 2 persone su 10mila, l’accesso a meno di 4 litri d’acqua pro-capite al giorno e meno di 1.500 kilocalorie al giorno». [2]

L’allarme Onu riguarda per il momento due regioni della Somalia meridionale, il Sud Bakool e il Basso Scebeli. Bowden: «Ma se non agiamo adesso, entro due mesi la carestia si estenderà a tutte e otto le regioni della Somalia meridionale. Ogni giorno di ritardo negli aiuti è letteralmente questione di vita o di morte». Veronese: «Se ci si limita alla sola Somalia, il numero di persone a rischio della vita è, secondo la stima Onu, di 3 milioni e 700mila, di cui 2 milioni e 800mila nelle regioni meridionali». [3]

Al termine di un cammino lungo due settimane, ogni giorno almeno 3mila somali in fuga dalla guerra e dalla siccità si riversano nei campi profughi sul confine con Etiopia e Kenya. [2] Christopher Tidey: «I tre campi di Dadaab - Ifo, Hagadera e Dagahaley - sono stati creati all’inizio degli Anni ’90 per accogliere gli immigrati in fuga dalla vicina Somalia costantemente in guerra. Programmati per un massimo di 90mila persone, ora ne accolgono 400mila. Dadaab è diventato il più grande campo profughi del mondo e il terzo insediamento in Kenya, dopo la capitale Nairobi e la città di Mombasa. Quasi tutti vivono in tende di fortuna. Sono soprattutto donne e bambini. Spesso sul campo soffia un vento forte, i bambini sono ricoperti di polvere e fanno fatica a respirare e a parlare». [4]

Su richiesta della presidenza di turno francese del G20, la settimana scorsa la Fao ha organizzato a Roma un vertice straordinario per discutere le misure da adottare per far fronte alla crisi nel Corno d’Africa e mobilitare il sostegno internazionale a favore dei paesi colpiti. Ban Ki-moon ha detto che per la Somalia servono urgentemente 1,6 miliardi di dollari. [5] Portare aiuti alimentari è però complicato. Veronese: «Le infrastrutture somale sono devastate da un ventennio di guerra civile, i porti sono in mano ai pirati, gli aeroporti alle più diverse bande armate, le strade derelitte e aperte a predoni di ogni specie». [6] Massimo Alberizzi: «Quello che fa paura sono le gang di banditi, resi ancora più cattivi dalla carestia e dalla fame. Gli stranieri sono definiti “walking dollars”, cioè dollari che camminano. Rischiano ogni momento di essere rapiti». [7]

Nell’immediato, si dice, la cosa migliore da fare è immettere denaro contante, sperando che in tal modo le derrate affluiscano sui mercati locali. Veronese: «E qui entra in gioco la politica. A impedire l’afflusso di aiuti alimentari non è soltanto la catastrofe logistica. È stato anche, nei mesi scorsi, il divieto imposto dalle feroci bande islamiche che controllano buona parte del Sud della Somalia, gli Shabaab (ovvero “i ragazzi”). Gli aiuti creano dipendenza, avevano proclamato. All’inizio di luglio, vista la situazione, hanno tolto il bando, ma nel frattempo la macchina internazionale era rimasta ferma. Per questo, adesso, l’unica cosa che può arrivare rapidamente è il denaro. “Servono 300 milioni di dollari entro due mesi”, ha detto Bowden. La prospettiva, per i donatori occidentali, è dunque quella di mettere una bella quantità di contante nelle mani degli Shabaab». [6]

Oltre che dalla fame, in queste settimane i somali fuggono dalla guerra. Alberizzi: «Probabilmente la carestia ha fatto saltare le ultime remore a quanti erano rimasti in Somalia convivendo con la violenza quotidiana; non ce l’hanno fatta più e sono partiti». [7] Intervistato dall’agenzia vaticana Fides, monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, ha detto che «la corsa per far fronte all’emergenza umanitaria, necessaria per salvare milioni di persone» non deve far dimenticare «il problema di fondo, che è la mancanza della struttura statale». E poi: «Se non si prende atto di questa situazione si continuano a tappare i buchi, senza risolvere il problema». Conclusione: «L’azione umanitaria, che deve essere fatta con urgenza, deve essere accompagnata anche da un discorso politico con i responsabili somali». [9]

La Somalia è da tempo un Paese senza Stato e senza governo. Giovannini: «Suddiviso in feudi controllati precariamente da bande armate in perenne conflitto». [8] È dal 1991 che il Paese è in balia del caos e dell’anarchia, con ampie fette del territorio dove nessuno, o quasi, vuole né può andare. Bongiorni: «La crisi si è deteriorata nel 2008, quando gli Shabaab hanno sferrato una grande offensiva contro il Governo somalo di transizione assediando Mogadiscio. Da allora controllano quasi otto regioni su nove della Somalia centro-meridionale. Dal 2009 hanno vietato a quasi tutte le Ong, tra cui il Wfp (il programma alimentare mondiale, ndr), l’accesso alle zone sotto il loro controllo». [2]

Base a Mogadiscio, la Fao vuole allestire un ponte aereo verso i campi profughi di Dollo Ado (sud Etiopia) e Dabaab (estremo est keniano). Veronese: «Ma in mezzo al cerchio disegnato da questi punti c’è un immenso buco nero, il Sud somalo, l’epicentro della carestia. È soprattutto lì che la gente sta morendo. Ed è lì che signoreggiano gli Shabaab». [3] Fino a pochi giorni fa i fondamentalisti islamici ripetevano che l’emergenza siccità e carestia è un’invenzione dell’Onu per far abbandonare il Paese alla gente. [8] Adesso paiono aver cambiato idea, al punto che si son detti pronti a riaccogliere le Ong cacciate. Alberizzi: «Sono in molti a credere che possa trattarsi di una trappola». Un Ahmed Olad sentito al telefono da Save the Children: «Qui non è arrivato nessuno ad aiutarci ed è comprensibile. Le organizzazioni non governative hanno paura che gli shabaab cambino di nuovo opinione e assalgano gli operatori». [7]

La carestia odierna ricorda quella dell’autunno 1992. Alberizzi: «Le immagini dei campi profughi, della gente che moriva senza cibo e senza acqua, bambini con la pancia gonfia di niente, riprese dalle televisioni di tutto il mondo, colpirono come un pugno nello stomaco l’opinione pubblica». [7] La guerra somala fu la prima “guerra umanitaria” del terzo dopoguerra e, nelle intenzioni di George Bush senior, un segno del modo in cui le maggiori potenze avrebbero amministrato le crisi mondiali dopo la fine della guerra fredda. Sergio Romano: «Scoppiò quando i somali si sbarazzarono di un presidente autoritario, demagogo e corrotto, Siad Barre, ma non riuscirono a costituire un governo di unità nazionale e precipitarono nel vortice di una sanguinosa guerra tribale». [10]

Lo sbarco americano avvenne tra l’8 e il 9 dicembre 1992. Romano: « Il compito di questo corpo di spedizione (a cui si affiancarono corpi di molti altri Paesi, fra cui l’Italia) era quello di controllare gli snodi stradali, presidiare il territorio, restaurare l’ordine, garantire la distribuzione di aiuti militari e medicine a una popolazione affamata e terrorizzata. È probabile che Bush e i suoi alleati si aspettassero un’accoglienza entusiastica e riconoscente. Caddero invece nella trappola di una guerra tra bande di predoni e spregiudicati “signori della guerra”. La Casa Bianca, nel frattempo, aveva cambiato inquilino. Il nuovo presidente, Bill Clinton, decise che il miglior modo per sbrogliare la matassa somala fosse quello di eliminare il più agguerrito, brutale e spregiudicato dei signori della guerra». [10]

La caccia al generale Mohammed Aidid durò buona parte del 1993 e si concluse disastrosamente in ottobre quando un convoglio americano cadde in una imboscata nelle vie di Mogadiscio e lasciò sul terreno 5 elicotteri, 18 morti, 78 feriti e numerosi prigionieri. Romano: «Poco dopo, Clinton, preoccupato dalle reazioni della sua opinione pubblica, annunciò che gli Stati Uniti avrebbero ritirato il loro contingente nel marzo 1994. Gli altri Paesi se ne andarono, uno dopo l’altro, nei mesi seguenti». [10] Alberizzi: «Fuggirono lasciando una Somalia che da allora è sprofondata sempre più nel caos, nella disgrazia e nella disperazione». [7]

Note: [1] Pietro Veronese, la Repubblica 21/7; Melania Di Giacomo, Corriere della Sera 26/7; La Stampa 26/7; [2] Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore 26/7; [3] Pietro Veronese, la Repubblica 27/7; [4] Christopher Tidey, la Repubblica 27/7; [5] la Repubblica 26/7; [6] Pietro Veronese, la Repubblica 21/7; [7] Massimo Alberizzi, Corriere della Sera 21/7; [8] Roberto Giovannini, La Stampa 26/7; [9] La Stampa 26/7; [10] Sergio Romano, Corriere della Sera 21/7.