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 2011  maggio 26 Giovedì calendario

DIVERSAMENTE EVASORI

Sulla rubrica di venerdì 20 maggio avete trovato qualche considerazione sull’inefficienza programmata del sistema tributario. Il Fatto ha pensato che non è male approfondire. Così, ecco un’altra chicca.
Le imposte si pagano sul reddito conseguito. Attenzione, il reddito, non quello che si incassa. Se vendo patate per 100.000 euro ma ho speso 50.000 euro per comprarle, il mio reddito sarà di soli 50.000 euro. Dunque il reddito è la risultante della somma (algebrica) dei costi e dei ricavi: 100.000 di ricavi meno 50.000 di costi uguale 50.000 di reddito. Perché questa banalità? Perché, a questo punto, ognuno capisce che, per evadere le imposte, si può operare in due modi. Posso dire al Fisco: “Ho incassato 60.000 (falso, ho incassato 100.000) e ho speso 50.000 (vero); ti pagherò imposte su un reddito di 10.000”. Ma posso conseguire lo stesso risultato dicendo al Fisco: “Ho incassato 100.000 (vero) e ho speso 90.000 (falso, ho speso 50000); ti pagherò le imposte su un reddito di 10.000”. In entrambi i casi ho evaso imposte su 40.000 euro di reddito.
NATURALMENTE i mezzi per garantirsi il successo dell’operazione, sono diversi. Nel primo caso, ometterò di battere lo scontrino, di emettere la ricevuta fiscale, la parcella, la fattura; farò il cosiddetto “nero” e annoterò in contabilità soltanto una parte di quello che ho realmente incassato. Nel secondo caso mi dovrò procurare una documentazione (fatture false per costi mai sopportati) che attesti che ho speso più di quello che ho speso davvero; poi la inserirò in contabilità. In entrambi i casi avrò costruito una contabilità fa-sulla ; così, quando e se (ma ho già scritto altre volte che le probabilità sono pochissime, circa il 10 %) il Fisco mi controllerà, io la esibirò e siccome tutto è apparentemente regolare la farò franca. Debbo dire che non è proprio tutto così semplice, altrimenti io non avrei potuto acchiappare tanti evasori nei miei anni di lavoro; però quello che conta è che, quale che sia il metodo seguito, tutto si riduce a preparare una contabilità fasulla in modo da fornire la prova (falsa) che si è pagato quanto dovuto. C’è una ragione al mondo per cui il primo sistema (dichiarare meno di quello che si è incassato) debba essere punito meno gravemente del secondo (dichiarare costi superiori a quelli effettivamente sostenuti)? Ovviamente no. Eppure è proprio così: nel primo caso si tratta di “dichiarazione infedele” (art. 4 D.Lg. 74/2000), punita con la reclusione da 1 a 3 anni; nel secondo caso si tratta di frode fiscale (art. 3), punita con la reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni. Ma non basta; perché, nel primo caso, per commettere il reato bisogna aver evaso imposte per più di 103.291 euro (che significa un “nero” di più di 200.000 euro); nel secondo caso basta un’evasione di 77. 468 euro (equivalenti a un reddito, su cui non si pagano imposte, maggiore di 150.000 euro).
Insomma, come si vede bene, un trattamento di favore per chi fa il “nero” rispetto a chi usa documentazione falsa. Adesso la domanda è: ma chi fa il “nero”; e chi usa documentazione falsa? La risposta è semplice: il “nero” lo fanno i lavoratori autonomi; la documentazione falsa è il sistema cui ricorrono gli imprenditori. Pensateci: chiamate un idraulico, un muratore; andate da un dentista, da un avvocato. Cosa gli impedisce di non rilasciare fattura? Quante volte, alla domanda “Quanto costa?” vi siete sentiti rispondere “Con Iva o senza IVA?”. Voi avete pensato: “Che m’importa dell’Iva, non la scarico, debbo pagare il 20 % in più” e avete risposto “Senza Iva”. E lui non vi ha fatto la fattura e si è preso “il contante” (un mio imputato lo chiamava il “denaro fresco”). Ma un imprenditore, lui, usa materie prime che deve comprare (fatture passive, costo, inserimento in contabilità e detrazione dai ricavi); ma poi risulterà che queste materie prime sono state utilizzate. “In quale lavoro?” gli verrà chiesto; e se non può documentarlo con corrispondenti fatture (attive) sono guai. Quindi “nero” non ne può fare. Inoltre in genere l’imprenditore lavora per altri imprenditori che vogliono la fattura perché, per loro, si tratta di un costo che significa meno imposte; e, ancora, loro l’Iva la scaricano, quindi la fattura gli serve. Anche qui, niente “nero”. Insomma, per gli imprenditori il “nero” è una cosa complicata e, se vogliono evadere, debbono usare fatture fasulle: più costi, minor reddito.
CONSEGUENZE pratiche: per la dichiarazione infedele (massimo 3 anni di prigione) non sono possibili le intercettazioni telefoniche; non si può disporre la carcerazione preventiva; di fatto, anche se condannati al massimo della pena, in carcere non si va (affidamento in prova al servizio sociale). Per la frode fiscale (massimo 6 anni) invece, intercettazioni, carcerazione preventiva e, se si è condannati a una pena superiore a 3 anni, prigione. A parte che si tratta comunque di pene ridicole (provate a evadere le imposte negli Usa e vedete quello che vi capita), resta il fatto che tutto questo è tanto più ingiusto in quanto è molto più difficile accertare la dichiarazione infedele rispetto alla frode fiscale: le fatture false, se uno ci sa fare, si scoprono; ma la contabilità artefatta è una cosa complicata da provare.
Come mai è andata così? Bisognerebbe chiederlo a D’Alema (allora presidente del Consiglio) e a Visco (allora ministro delle Finanze); alla sinistra, non a B&C. Quello che posso dirvi io (che questa legge sciagurata l’ho scritta, certo non in questo modo) è che l’attività delle lobbies di artigiani, professionisti, baristi, ristoratori, piccoli commercianti era frenetica. Ed erano tanti. Tante persone e tanti voti...