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 2011  maggio 25 Mercoledì calendario

CHIUSO PER SFRATTO

Adriano De Angelis ha settantatré anni, uno in meno di Cinecittà: «Qui dentro», mi dice, «ci sono nato. Mio nonno Angelo, che faceva il decoratore, iniziò a costruire oggetti di scena in gesso nel 1937 per le prime produzioni cinematografiche; nel ’42 affittò i primi locali, poi mio padre si trasferì in questo edificio, più di cinquant’anni fa».
Piove su Roma in un mattino primaverile. Davanti al Teatro 15 di quella che negli anni della Dolce Vita venne ribattezzata la «fabbrica dei sogni sulla Tuscolana» si aggira solo qualche figurante della De Filippi, benedetto da un Cristo dorato. È la statua - in vetroresina, alta più di tre metri - che nella prima scena della Dolce vita veniva trasportata da un elicottero fino a piazza San Pietro: semicoperta da una palma spelacchiata, qui prende acqua tra un totem e una catasta di sedie di plastica; mentre ai suoi piedi giace, stramazzato, un cavallo (finto), residuo chissà di quale western.
I capannoni della CineArs - la ditta della famiglia De Angelis - si stagliano davanti a me, in tutta la loro pencolante decrepitezza. Sono qui per vedere se è vero che lì dentro prende forma l’immaginario collettivo di cinque generazioni di spettatori e per capire come sia possibile che un posto del genere - ammesso che esista - sia agli ultimi giorni di vita. «Il 31 maggio ci scade il contratto d’affitto; e non credo che ci verrà rinnovato», mi ha detto De Angelis con un sorriso amaro, appena mi ha accolto.
Non è stato per l’odore intenso della vetroresina che quando sono entrato ho avuto un senso si vertigine; accatastate una accanto all’altra, una sull’altra, per tutto l’enorme stanzone, e fino a sfiorare il soffitto, ci sono centinaia di statue, di ogni foggia, dimensione e colore: piccoli idoli indù dorati, marmi canoviani, sfingi, scheletri, bocche di squalo, angeli, ippogrifi. Tutto finto. Per poco non inciampo in due delfini mitologici: «Sono quelli della corsa delle bighe di Ben- Hur», mi dice De Angelis. «Servivano per contare i giri». Li riconosco, ovviamente: si tratta della scena più famosa della storia del cinema; e il fatto che abbiano nuotato dall’oceano d’argento del grande schermo fino a questa impolverata rigatteria mi sembra quasi un’assurdità della fisica, come se la materia impalpabile di cui sono fatti i nostri sogni cinematografici avesse subito uno sconvolgimento molecolare.
Mi guardo meglio intorno. Il soffitto è per metà di lamiera e per metà di legno intarsiato, a cassettoni: «Lo fece mio padre per Il Gattopardo; mentre i tre lampadari, due vengono dal set di Salò o le 120 giornate di Sodoma, il terzo da Morte a Venezia di Visconti. Ce n’era pure un quarto, gigantesco, che avevamo fatto per Le avventure del barone di Münchausen di Terry Gilliam; ora è in una discoteca di Gabicce Mare».
Tutto, qui dentro, evoca una scena della storia della settima arte: ecco una gabbietta per uccelli usata da Fellini in Giulietta degli spiriti, la testa di un soldato del Talento di Mr. Ripley, un Buddha dal set di Gangs Of New York, una statui¬na di Sophia Loren utilizzata da Negulesco per Il ragazzo sul delfino, le riproduzioni giganti di tre Oscar commissionate per la cerimonia di premiazione; ecco le divinità egizie preparate per Cleopatra: «Ci lavorammo in centoventi», mi dice De Angelis; «quello dei “sandaloni”, i film ambientati nell’antichità, fu un periodo d’oro anche per noi: Quo vadis?, Ben-Hur… L’ultima grande produzione è stata Il gladiatore, anche se quello che ci ha dato più lavoro è stato senz’altro Fellini. Seguiva la costruzione delle scenografie in prima persona. Il progetto più difficile che ho realizzato è stato proprio per il suo La città delle donne: assieme a Dante Ferretti (due volte premio Oscar per la scenografia, ndr) abbiamo dovuto costruire una statua di donna alta otto metri, tutta in lattice gonfiabile, una roba mai fatta prima; si sarebbe dovuta gonfiare diventando una mongolfiera, mantenendo intatti i lineamenti femminili, ma quello che si gonfia ovviamente si arrotonda, così abbiamo dovuto scervellarci nel mettere centinaia di tiranti all’interno… Ogni volta che vedo quella scena in cui Mastroianni cerca di arrampicarsi sul cestello della donna-mongolfiera penso a quanto ci abbiamo sudato».
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I capannoni della CineArs sono ridotti male: in diversi punti il tetto lascia entrare la pioggia e dappertutto ci sono bacinelle per provare a raccoglierla, ma si percepisce distintamente il rumore delle gocce su un colossale David di Donatello in gesso: hanno fatto il calco sopra l’originale; roba che ormai le Belle Arti non permettono più e che rende questo posto, oltre che un tesoro per gli storici del cinema, anche un forziere pieno di pezzi inestimabili anche per le scuole d’arte. «Quello è un calco della Paolina Borghese del Canova», mi dice il mio anfitrione. «Come mai è senza testa?», chiedo. «L’abbiamo fatto per il film Venere imperiale, con la Lollobrigida; la testa riproduceva la sua, ma alla fine delle riprese lei mi chiese di distruggerla perché non voleva che il suo volto fosse usato su una figura seminuda».
L’elettricità va e viene, lussureggianti frasche sono penetrate dai lucernari coi vetri sfondati; una debole brezza fa oscillare freneticamente una gigantesca campana di bronzo: come è possibile? Ovvio: è in vetroresina, come tutto qui dentro, leggerissima chincaglieria delle nostre visioni in Panavision. De Angelis mi spiega che si tratta della campana della chiesa di Don Camillo nella serie di film tratti dai racconti di Guareschi con Fernandel nel ruolo del parroco di Brescello e Gino Cervi in quello del sindaco comunista Peppone. Incantato come un bambino davanti a un luna-park, provo a chiedere: «Non mi dirà che avete pure il crocifisso che parlava a Don Camillo?». «Sta di là», mi dice De Angelis, e mi accompagna in un altro capannone: eccolo, appeso al muro, soffocato da decine di altri crocifissi, statue votive, candelabri, Madonne con Bambino…
Ma è vero che è tutto destinato a scomparire? De Angelis è sotto sfratto e fra poche settimane Cinecittà butterà fuori dalle sue mura una famiglia di artigiani che ci lavora dalla sua fondazione, contribuendo a fare di Roma la seconda capitale mondiale del cinema dopo Hollywood.
«Forse ci trasferiremo in un capannone fuori da qui», mi dice De Angelis. «Oppure venderemo tutto a un museo: mio padre e io abbiamo sempre rifiutato di portare fuori da qui le nostre cose, ed ecco come ci siamo ridotti. Ho ricevuto un’offerta da parte di un museo ad Abu Dhabi. Vedremo… Io ho sempre sperato che un museo del cinema nascesse a Cinecittà, e ora che forse nascerà lo fa ammazzando noi. Abbiamo tredicimila pezzi; abbiamo lavorato per i parchi della Disney e quando sono venuti a trovarmi mi hanno detto che in tutto il mondo non c’è una raccolta di sculture per il cinema come la nostra. Ma come, vengono da tutto il mondo a vedere le cose mie, e proprio qui non gliene frega niente a nessuno?».
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Quando la sbarra all’ingresso di Cinecittà si richiude alle mie spalle c’è un bel sole che fa fumare l’asfalto bagnato della Tuscolana. Sulla mia destra, appena termina il muro di cinta degli studi cinematografici, si staglia imponente il moderno centro commerciale, costruito dove prima c’erano il villaggio western, il villaggio messicano, un campo di concentramento, un tratto di strada e una piscina per le scene subacquee. Roma si sta mangiando Cinecittà pezzo per pezzo, con una voracità inesorabile; fra poco toccherà pure alla CineArs. È qualcosa di simile a un suicidio, perché non c’è altro luogo di Roma che la rappresenti così perfettamente: chi vuole capire questa magnifica e terribile città non deve far altro che andarsi a fare un giro tra quei monumentali set abbandonati, quei giganti in vetroresina assediati dalla vegetazione e quei teatri di posa scalcinati. In qualsiasi altro Paese del mondo tratterebbero un posto del genere come un santuario; noi lo lasciamo morire, o - peggio - lo trasformeremo in una Disneyland di terza classe svuotandolo prima della sua anima.