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 2011  maggio 24 Martedì calendario

Biografia della contessa di Castiglione

Un profilo della contessa Virginia di Castiglione FRANCO DELLA PERUTA La contessa di Castiglione, una delle donne più belle dell’Ottocento, ha attratto a lungo l’attenzione di letterati e di studiosi per la singolarità del suo fascino, per la complessità delle sue vicende amorose, per le relazioni intime o assidue con personaggi di primo piano del mondo politico e finanziario dei decenni centrali del XIX secolo, italiani ed europei, e anche per il ruolo politico che le è stato attribuito di cooperatrice di Cavour nella preparazione della seconda guerra d’indipendenza del 1859. La “divina”, come era chiamata dai suoi ammiratori, la “perla delle bellezze italiane”, quale era apparsa al marito, è stata così oggetto di una serie di ricostruzioni biografiche più appartenenti al genere fantasioso del “romanzo storico” e delle biografie romanzate che a quello della storiografia scientifica; e quindi la vita della Castiglione è stata troppo spesso circonfusa da un alone mitico che ha contribuito a velare i contorni reali dell’esistenza di una donna che è stata di volta in volta presentata come la “grande amorosa della storia”, la “gran favorita” di Napoleone III, la “Pompadour imperiale”, l’“ambasciatrice di Cavour”, l’“imperatrice senza impero”, la “contessa della leggenda” e via dicendo. E non sarà quindi inutile delineare nelle pagine che seguono il corso della sua esistenza, cercando di sfrondarla dalle fantasie e dalle amplificazioni e riconducendola ai suoi tratti concreti e documentati. Virginia nacque a Firenze, nella parrocchia di San Lorenzo, il 22 marzo 1837, e non, come ella amò far credere quando era già avanti negli anni, nel 1843. Suo padre era il marchese Filippo, nato nel 1817 da una facoltosa famiglia di La Spezia, eletto deputato nel primo Parlamento subalpino nel 1848 e nel 1849, ed entrato poi nella carriera diplomatica per interessamento di Massimo d’Azeglio. La madre Isabella, fiorentina, era figlia della danzatrice Luisa Corsi e di Ranieri Lamporecchi (1776-1862), giurista toscano definito da un biografo “onore e lume” del suo paese,1 che esercitò con successo l’avvocatura impegnandosi in processi importanti che gli procurarono ottimi guadagni e gli assicurarono una solida posizione economica.2 Virginia, chiamata in famiglia “Nicchia”, crebbe così fra gli agi e la sua educazione non fu diversa da quella usuale delle adolescenti della nobiltà del tempo: rudimenti di una cultura generale, studio dell’italiano, del francese e dell’inglese, ballo e buone maniere, letture non organiche, e frequentazione delle dimore e dei salotti della aristocrazia della nascita e del danaro della capitale del granducato di Toscana. Divenuta fanciulla, Virginia fu presto nota per la sua fresca avvenenza attestata da una fama diffusasi nell’alta società, come documentano alcune testimonianze, tra cui quella di Massimo d’Azeglio. L’uomo politico scrivendo da La Spezia all’amica Teresa Targioni Tozzetti il 24 marzo 1849 (e quindi poche settimane prima di diventare presidente del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna) le diceva infatti di aver rivisto nella casa dei coniugi Oldoini, suoi amici di lunga data, la dodicenne Nicchia, “carina e per bene”, che lo aveva conquistato con le sue grazie.3 E per restare nell’ambito dei d’Azeglio, Costanza Alfieri d’Azeglio (moglie di Roberto, fratello di Massimo) in una lettera inviata al figlio Emanuele da Firenze il 19 marzo 1851 lo informava che l’indomani avrebbe pranzato in casa Oldoini e aggiungeva questi dettagli: “Mme [Isabella] est venue me faire visite hier en grand gala: elle est un peu sguaiatella, elle a une fille assez jolie [la quattordicenne Nicchia], mais je ne sais trop quelle éducation elle reçoit”.4 Due anni dopo, nel 1853, si verificò a La Spezia un avvenimento destinato a influire profondamente sul destino di Virginia. La città ligure – allora poco più che un borgo marino – fu infatti scelta nel luglio di quell’anno dalla regina degli stati sardi Maria Adelaide come meta per una cura di bagni. “Il soggiorno – la testimonianza è consegnata ai ricordi autobiografici del generale Enrico della Rocca, aiutante di campo di Vittorio Emanuele II – non offriva grandi distrazioni... se non quelle date dalla straordinaria bellezza della signorina Virginia figlia del marchese Oldoini proprietario delle vicinanze e segretario di legazione nel nostro corpo diplomatico.5 Gli ufficiali consumavano il tempo a spiare i passi della signorina ... e cercavano tutte le occasioni per vedere quella decantata bellezza”.6 Fra questi ufficiali era il conte piemontese Francesco Verasis Asinari di Castiglione, nato nel 1828 da Vittorio Luigi Gabriele, gran maestro delle cerimonie alla corte di Carlo Alberto e marito di Vittoria Martina di Cigala, dama di palazzo della regina Maria Teresa. Francesco, imparentato ai D’Azeglio (era cugino di Emanuele), gentiluomo di corte di Carlo Alberto e poi ufficiale d’ordinanza e segretario di gabinetto di Vittorio Emanuele II, era rimasto vedovo nel 1851 della prima moglie, la contessa Francesca Trotti e la sua famiglia disponeva di un patrimonio abbastanza cospicuo, anche se non bene amministrato.7 Il conte si invaghì di Virginia; ne seguì un breve fidanzamento e il 9 gennaio 1854 si celebrarono le nozze fra i due a Firenze, nella chiesa di Santa Maria del Fiore, con una cerimonia sfarzosa. Al rito avrebbe dovuto assistere anche Massimo d’Azeglio, che si era adoperato per la conclusione di questo matrimonio; il marchese dovette rinunciare al viaggio a Firenze per motivi di salute, ma si premurò di far ordinare alla gioielleria Bautte di Ginevra un anello-sigillo in diaspro rosa recante su un verso il nome Nicchia (“appellativo tutto fiorentino che significa ’conchiglia’ ”) e sull’altro il nome Virginia.8 Subito gli sposi si recarono a La Spezia, dove ebbero luogo nuovi festeggiamenti, e dalla città ligure partirono poi per Genova e di lì – in ferrovia – per Torino, dove giunsero la sera dell’11 gennaio. Nella capitale piemontese Virginia e Francesco presero alloggio in un palazzo vicino a quello di Cavour, comprato agli inizi dell’Ottocento dal padre di Francesco. La fama della straordinaria avvenenza di Nicchia l’aveva preceduta a Torino, creando nel bel mondo la curiosità di accertare se la realtà corrispondeva alla voce pubblica. E al riguardo Margherita Provana di Collegno annotava il 12 gennaio nel suo diario: “I curiosi di Torino sono oggi preoccupati dell’arrivo della sposa Castiglione-Oldoini”;9 mentre a sua volta Costanza d’Azeglio scriveva a Emanuele il 15 gennaio; “La contessa ... è arrivata, ma non so ancora quel che se ne dice, perché non ha ancora avuto occasione di apparire; la marchesa di Carrail dà un ballo per lei martedì [17 gennaio], e vedremo chi tra la Castiglione e la contessa Castelborgo conseguirà la palma”.10 E dal canto suo Massimo d’Azeglio riferiva in una lettera del 18 gennaio: “La sposa ha fatto la sua comparsa sull’orizzonte con pieno incontro. L’hanno trovata bella come se l’aspettavano, e non è poco. Poi s’è mostrata garbata con tutti e questo non se l’aspettavano, perché c’era chi aveva predetto il contrario. Son persuaso che tutto si metterà bene e che potrò felicitarmi d’essere stato il fortunato promotore di questo matrimonio”.11 Queste prime, e positive, apparizioni in società di Virginia ebbero una sorta di consacrazione ufficiale nel ballo di corte del 25 gennaio, quando la giovane sposa venne presentata a Vittorio Emanuele. E diamo ancora la parola a Costanza d’Azeglio, la quale due giorni dopo così comunicava le sue impressioni a Emanuele: “La contessa Castion [piemontese per ’Castiglione’, n.d.r.] ha avuto un debutto mirabolante a Torino. Si correva per vederla, ci si affollava sotto il suo palco dove si andava in estasi, insomma era un grande evento. Al ballo di corte tuttavia la si è trovata male acconciata, e allora le nostre bellezze, che erano in piena rotta, hanno avuto un buon momento per riprendere una posizione migliore”.12 Massimo d’Azeglio non fu però buon profeta, perché il matrimonio al quale aveva pronosticato un fortunato avvenire mostrò ben presto le prime incrinature. Lo sposo, soddisfatto per aver impalmato una delle più belle donne d’Italia, non perdeva infatti occasione per esibire Virginia come un oggetto prezioso, provocando reazioni di insofferenza e scatti nervosi in Nicchia, la quale assai probabilmente non era mai stata innamorata di Francesco, come rilevava una donna perspicace come Costanza d’Azeglio che il 9 aprile tracciava questo penetrante quadro del ménage: “[Francesco] ha preso l’abitudine di mostrarla come si mostrerebbe il Koynor [Kuh-i-nur, uno dei più celebri diamanti del mondo], ma lei non ha la vocazione della bestia strana, e si rifiuta all’esposizione; in famiglia è come un fanciullo dalla gaiezza folle, ma dal momento in cui entra qualcuno prende delle grandi arie che vengono trovate un poco imbronciate; il male non sarebbe tuttavia grande con un marito ragionevole. Credo che l’abbia sposato senza gusto e il gusto non l’è venuto; lui fa e dice delle sciocchezze che giustamente la urtano, e lei lo dimostra abbastanza liberamente”.13 E le impressioni della nobildonna piemontese trovano pieno riscontro nelle rapide note del diario di Virginia relative a quelle settimane, dove si accenna a frequenti incomprensioni e litigi fra i coniugi, con Francesco che il 13 febbraio, a poco più di un mese dalle nozze, già parlava di separazione: chiara prova della fragilità di un’unione destinata a una precoce rottura la cui responsabilità non va addossata integralmente a Nicchia, che ebbe però la sua parte di colpe. I mesi successivi, del 1854 e dell’inizio del 1855, Virginia li trascorse tra Torino, La Spezia (dimora delle vacanze estive) e Costigliole d’Asti, a una cinquantina di chilometri da Torino, dove i Verasis di Castiglione possedevano un castello, la cui vita di società offrì una nuova scena alla giovane contessa, ormai pienamente consapevole delle potenzialità della sua bellezza e desiderosa di esercitarle. E così, dopo aver dato alla luce, il 9 marzo 1855, quello che resterà il suo unico figlio, Giorgio, Nicchia intreccerà il primo di una lunga serie d’amori con Ambrogio Doria, il poco meno che trentenne figlio del marchese Giorgio, appartenente a una delle più illustri famiglie patrizie di Genova.14 Il 9 gennaio 1856 i coniugi Castiglione giunsero a Parigi, dove erano stati invitati da Giuseppe Poniatowski, il principe polacco loro amico che si era stabilito da qualche anno nella capitale francese. In quei giorni stava finendo la guerra di Crimea, nella quale Cavour aveva impegnato il Piemonte a fianco degli alleati franco-anglo-turchi contro la Russia per tentare di inserire la questione italiana nel più ampio gioco diplomatico europeo. Il conflitto alla fine del 1855 si era chiuso con la sconfitta della Russia e il 25 febbraio 1856 doveva aprirsi il Congresso di Parigi per stabilire le condizioni del trattato di pace: un’occasione dalla quale il primo ministro piemontese sperava di conseguire qualche risultato tangibile per il suo paese. Il conte, nelle lunghe settimane dei lavori del Congresso (chiusosi il 16 aprile), non ebbe gli ampliamenti territoriali che avrebbe voluto per il suo Stato, ma ottenne che nella seduta dell’8 aprile si discutesse della situazione italiana, sottolineando nel suo intervento che la presenza militare dell’Austria nello Stato pontificio minacciava la sicurezza del Piemonte. Inoltre – ed è quello che più conta – Cavour riuscì a far convergere sulla causa nazionale italiana le simpatie dell’opinione pubblica illuminata europea e trovò un punto di riferimento per le ambizioni del Piemonte in Napoleone III, l’imperatore dei francesi sempre più incline a una politica di revisione della situazione europea che aveva uno dei suoi cardini nell’allontanamento dell’Austria dalla nostra penisola. Una leggenda romanzesca dura a morire ha a lungo attribuito a Virginia Castiglione e alle sue grazie muliebri un ruolo essenziale nell’aver fatto abbracciare a Napoleone III la causa del Piemonte di Vittorio Emanuele e di Cavour, tanto che non si è esitato a presentarla come uno degli artefici, insieme a Cavour, dell’unità d’Italia.15 E alla costruzione di questa leggenda diede il suo apporto anche la bella contessa, la quale non esitò a vergare su una delle sue tante fotografie le parole “Italia feci”.16 Ma la realtà storicamente accertata dissolve il mito e riduce i fatti a dimensioni assai più limitate e prosaiche. Il 16 febbraio 1856, nell’imminenza dell’apertura dei lavori del Congresso, arrivò a Parigi Cavour e Virginia – la “charmante cousine”, come la chiamava lo statista in riferimento alla comune parentela con gli Oldoini – si incontrò con lui il 19 e il 21 di quello stesso mese, dichiarandosi disposta a entrare nella sua diplomazia segreta per cercare di ammaliare Napoleone III al fine di averne informazioni riservate e rafforzare le sue buone disposizioni nei confronti del Piemonte. “Ho arruolato nelle file della diplomazia – scriveva Cavour a Luigi Cibrario il 22 febbraio – la bellissima contessa di Castiglione, invitandola a ’coqueter’ ed a sedurre, ove d’uopo, l’imperatore”. E in cambio il padre di Virginia (“son imbécile de père”, come non si peritava di definirlo il conte) avrebbe ottenuto il sospirato posto di segretario di legazione a San Pietroburgo, carica che Filippo Oldoini in effetti ottenne nel luglio 1856.17 Virginia, che subito dopo l’arrivo a Parigi aveva cominciato a frequentare i salotti del gran mondo della capitale, al momento dei suoi incontri con Cavour era già stata presentata all’imperatore, che aveva visto varie volte nei salotti e ai balli delle Tuileries. Naturalmente non era passata inosservata agli occhi di Napoleone, assai sensibile alle attrattive delle belle donne. Del resto Nicchia già nelle prime settimane del suo soggiorno parigino era divenuta una celebrità per le sue grazie, accresciute dalle toilette ricercate fino a sfiorare la stravaganza, nel desiderio di primeggiare fra le molte beltà femminili che frequentavano la corte. E un giornalista dell’Indépendance belge in un servizio di quei giorni l’affiancava al conte Aleksej Fëdorovic Orlov, il capo della delegazione russa al Congresso di Parigi, come la seconda personalità al vertice della notorietà e della curiosità mondane. “Lui ha 71 anni – scriveva Jules Lecomte – lei ne ha 18. Lui viene dal nord, lei arriva dal sud. Lui porta la pace, lei mette la confusione tra le nostre bellezze locali, le nostre eleganti. Li si cerca con ardore nei saloni, all’Opéra, dovunque potrebbero essere”.18 Un riconoscimento questo del fascino di Nicchia, cui si può aggiungere quello che le tributò nei ricordi relativi a quei mesi Paolina Metternich-Winneburg, moglie dell’ambasciatore austriaco a Parigi dopo Villafranca, la quale paragonò Virginia a una “Venere scesa dall’Olimpo”, a una ninfa per la perfezione delle forme, per l’incarnato rosato e fresco, per l’ovale delizioso e regolare del volto, per gli occhi verde scuro.19 La Castiglione, ambiziosa e desiderosa di primeggiare nonostante l’ancor fresca età, mise tutto il suo impegno nello svolgimento della missione erotico diplomatica cui l’aveva invitata Cavour, anche se probabilmente la conquista dei favori dell’imperatore non dovette essere un’impresa troppo defatigante. La posizione di favorita di Napoleone durò però soltanto una breve stagione, perché la liaison si concentrò tutta nei mesi dell’inverno 1856-57 e per la sua fugacità non conseguì risultati di rilievo sul piano politico. L’imperatore si stancò infatti presto della relazione e Virginia venne relegata in una posizione secondaria nello scenario delle feste della Parigi del Secondo Impero, nonostante i suoi ripetuti tentativi di ritornare nelle grazie di Napoleone, alcuni dei quali affidati all’amico Poniatowski. E proprio questi la invitava ad abbandonare le speranze in una lettera della fine del 1858, nella quale esponeva la situazione in termini crudi e realistici: “Io non l’ho ancora visto [Napoleone]; egli mi tratta male perché lo si è persuaso che tra noi esistevano dei rapporti; del resto egli crede con molti altri che tu sei l’amante del re [Vittorio Emanuele] ... In fondo, egli non ha più interesse per te; e tutto questo è stato per lui un capriccio che gli ha causato noie, e preferisce non sentirne parlare più. Verità molto dura, ma è preferibile che tu la conosca, perché ti serva di guida e non ti induca in errore”. E il 25 gennaio 1859 ribadiva le sue convinzioni, suggerendo inoltre alla sua corrispondente di non fare la “coglioneria” di restituire all’augusto personaggio i gioielli che questi le aveva donato.20 Alla contessa, per quanto riguarda Napoleone, non restò dunque altro da fare che rimpiangere di non essere andata in Francia qualche anno prima, cosa che le avrebbe forse permesso di regnare alle Tuileries al posto di Eugenia di Montijo, e commentare sconsolata: “Ho appena traversato la vita e il mio ruolo è già finito”.21 Quanto poi alla portata di tale ruolo, non si può non consentire con quanto in anni ormai lontani aveva scritto un maestro degli studi risorgimentali, Alberto Maria Ghisalberti: “Per l’amor di Dio e della verità, non trasformiamo Nicchia in uno dei protagonisti del Risorgimento e non facciamo della camicia di finissimo lino indossata nella notte di Compiègne, e che ella avrebbe voluto, e non ottenne, avere addosso anche nella bara, una bandiera nazionale”.22 Nel frattempo era definitivamente andato in pezzi il matrimonio dei coniugi Castiglione, con una separazione decisa a fine maggio 1857 (e sanzionata dal Tribunale di Torino nel settembre 1859), sulla base di un accordo che impegnava i due sposi a cessare ogni relazione e che prevedeva il versamento di una “pensione” da parte del marito. Per l’occasione Francesco redasse anche una sorta di compendio delle sue recriminazioni nei confronti di Virginia, accusata tra l’altro di rifiutare di “sottomettersi ai doveri naturali del matrimonio” per il timore di restare incinta, di trattare il marito, anche in presenza di estranei, come un “imbecille buono a nulla”, di non rispettare gli obblighi e le pratiche religiose, di spendere troppo in un lusso sfrenato e di nutrire scarso affetto per il figlio. Un rimprovero, quest’ultimo, che aveva un suo fondamento, perché in effetti Virginia poco si curò di Giorgio, sia prima che dopo la morte di Francesco (avvenuta in circostanze tragiche nel maggio 1867, in seguito a una congestione cerebrale che lo colpì mentre cavalcava al corteo nuziale di Amedeo di Savoia duca d’Aosta); tanto che a diciott’anni il giovine, affidato a una losca figura di precettore, abbandonò d’accordo con questi la casa materna per chiedere l’emancipazione, per poi spegnersi nel 1879, a soli ventiquattro anni. Negli anni successivi la Castiglione continuò a frequentare il bel mondo di Parigi, dove fissò la sua residenza (in una casa di Passy), alternando i lunghi soggiorni nella capitale francese a viaggi e a permanenze più o meno lunghe a Londra (presso i coniugi Holland, suoi vecchi amici), a Torino, a Firenze, a La Spezia. E, prima che la sua bellezza si offuscasse e cominciasse il declino fisico, ebbe ancora una lunga serie di amanti, nel cui catalogo figurarono tra gli altri, oltre al Poniatowski, il principe Henri de La Tour d’Auvergne-Lauraguais, il conte Henry d’Ideville (segretario della Legazione di Francia a Torino), il banchiere spagnolo Ignacio Bauer, lo storico Imbert de Saint-Amand, il giornalista Paul Granieri de Cassagnac e infine il generale orleanista Louis Estancelin, che le restò sempre amico devoto e appassionato. Ma le vicende connesse a questa rete di relazioni amicali e amorose possono interessare al massimo la storia dei costumi dell’aristocrazia del sangue e del danaro durante il Secondo Impero, e non si incrociarono più con la “grande storia”, neppure quando la contessa, subito dopo la caduta di Napoleone, cercò di favorire verso la fine del 1870 i sondaggi di Thiers presso Bismarck. Dopo la fine dell’impero di Napoleone III la vita della contessa si compendiò quindi nel percorso di un triste tramonto, acceleratosi soprattutto dalla fine degli anni settanta, quando Virginia si rinchiuse in un progressivo isolamento, un “seppellimento vivente, lontano da tutti” (come lei stessa lo definì), che arrivò a sfiorare la follia claustrofobica, con il solo conforto dei suoi piccoli cani e dei ricordi della passata bellezza, testimoniata dalle innumerevoli fotografie e dai ritratti conservati in una sorta di casa-museo. Nel disordine mentale dei suoi ultimi anni la Castiglione, che aveva mantenuto un tenore di vita assai dispendioso e che non era stata una buona amministratrice delle sue finanze, fu tormentata dalla paura della povertà: una paura che in realtà non aveva motivi validi dal momento che una stima dei suoi beni immobili (esclusi quindi i gioielli) li faceva ammontare a più di 600.000 lire del tempo (quando un’operaia prendeva un salario di una lira giornaliera e lo stipendio annuale di un maestro era di 450 lire).23 Virginia Castiglione si spense dolcemente a Parigi la notte dal 28 al 29 novembre 1899 e fu sepolta, dopo una semplice cerimonia funebre, nel cimitero del Pere Lachaise, lasciando al nuovo secolo il ricordo del suo fulgido splendore. Note 1 Tabarrini l863. 2 Si veda ad esempio la sua Consultazione a favore dei Signori componenti il consiglio d’amministrazione della Società anonima della strada ferrata da Firenze a Livorno, Firenze 1839. 3 De Rubeis 1930, p. 46. 4 Costanza d’Azeglio 1996, vol. 2, p. 1156. 5 Filippo OIdoini, entrato in diplomazia nel giugno del 1849, fu nominato segretario di Legazione a Dresda il 24 novembre 1849 ed ebbe poi incarichi di crescente rilievo fino al 1888 (cfr. Bacino 1950, pp. 4145). L’Oldoini non godeva la stima di Cavour, che nelle sue lettere si espresse crudamente nei confronti del padre di Virginia. Si veda ad esempio quello che scriveva ad Alfonso La Marmora il 23 luglio 1852: “OIdoini ha tutti i difetti d’Azeglio [Emanuele] senza compenso alcuno. Entrambi sono fat e leggieri. Ma Azeglio è fat con spirito, e l’altro lo è scioccamente. Azeglio veste stranamente, ma ciò non dispiace alle donne. E col piacere a queste, giunge talvolta ad ottenere quello di cui abbisogna dai mariti. Ma Oldoini non piace a nessuno, nemmeno alla propria moglie. Azeglio finalmente, come nipote di Massimo, ha una bella posizione nel mondo di Londra, ove i nomi e le parentele sono tenuti in gran conto; ma Oldoini, come marito di una donna galante, non ha titoli alcuni ai rispetti dei saloni di quella città” (Cavour 1984, p. 163). Cfr. anche il giudizio poco benevolo su Filippo che si legge in un rapporto del visconte José Ferreira Borge de Castro, rappresentante del Portogallo presso il re d’Italia (il documento è edito in L’unificazione italiana vista dai diplomatici portoghesi (1848-1870), a cura di Eduardo Brazão, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1962, vol 2, pp. 40-43). 6 Della Rocca 1897, pp. 347-349. 7 Secondo uno “stato” della sua fortuna, redatto da Francesco nel 1856 risultava un attivo di 2.511.500 franchi, di fronte a debiti per circa un milione (Decaux 1953, p. 25). 8 Guichonnet 1953, pp. 419-425. 9 Margherita Provana di Collegno 1926, pp. 158-159. 10 D’Azeglio 1996, vol. 2, p. 1350. 11 De Rubeis 1930, p. 106. 12 D’Azeglio 1996, vol. 2, p. 1354. 13 Ibid., p. 1371. 14 Ambrogio Doria, nato nel 1826 a Genova, entrò nell’esercito sardo e combattè valorosamente nella prima guerra d’indipendenza come ufficiale d’ordinanza di Ferdinando, duca di Genova. Dimessosi nel 1849 dall’esercito, ebbe un importante ruolo nella vita pubblica genovese. 15 Si veda per esempio Decaux 1953, p. 138. 16 Contro la leggenda cfr. soprattutto Ghisalberti 1975, pp. 561 ss. 17 Carteggi cavouriani 1933, p. 198. Cfr. la risposta di Chiala (25 febbraio 1856) in cui si legge: “Magnifico ritrovato è quello d’adoperar le Grazie nella Diplomazia. È un momento supremo. Conviene adoperar tutte le armi” (ibid., p. 213). Lo stesso 22 febbraio Cavour scriveva in termini analoghi anche a Urbano Rattazzi. Cfr. anche la lettera di Vittorio Emanuele a Cavour, in cui gli raccomandava di esser “buono” con Virginia e aggiungeva: “aggiusti il suo padre in qualche modo” (ibid., p. 374, lettera del 25 marzo 1856). 18 Decaux 1953, p. 97. 19 Paolina Metternich-Winneburg [1946], p. 151. 20 Decaux 1953, pp. 147-148. 21 Ibid., pp. 139, 145. 22 Alberto Maria Ghisalberti, recensione al volume Paolina Metternich-Winneburg [1946], in Rassegna storica del Risorgimento, 1952, pp. 285-286. 23 Poggiolini 1912, pp. 46-47.