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 2011  aprile 30 Sabato calendario

Pure le sue marionette non l’hanno presa bene. Guido Ceronetti a giugno dirà addio al palcoscenico

Pure le sue marionette non l’hanno presa bene. Guido Ceronetti a giugno dirà addio al palcoscenico. Il motivo? “Fui giovane e ora vecchio”, come recita uno dei salmi che ha tradotto e amato. Un annuncio che lascerà un po’ sconcertati i tantissimi che hanno amato il suo Teatro dei sensibili, nato all’inizio degli anni Settanta come un teatro d’appartamento e poi sceso in strada, in giro per l’Italia, fino a diventare una vera e propria compagnia. Che ha rotto ogni canone tradizionale, a partire dalla compresenza in scena di attori e marionette. E portato in scena l’assurdo e il grottesco. L’ultimo spettacolo di questa straordinaria figura di poeta, attore, marionettista, traduttore, scrittore e giornalista, inedita in un paese dove ogni genere vive nel suo orticello chiuso, sarà il 23 giugno, al Teatro Gobetti di Torino. La sceneggiatura, ci dice al telefono, sarà una sorpresa, ma il titolo non poteva che essere quello: “Finale di teatro”. L’evento si terrà all’interno del Festival delle colline torinesi, nato nel 1996 e diventato in quest’ultimi anni un’importante vetrina del teatro sperimentale. Guido saluta tutti: «Addio palcoscenico» - In questa cornice, Ceronetti ha voluto inserire anche un’idea che contiene uno dei temi che fanno capolino in tutta la sua inclassificabile ed eclettica produzione artistica: un “festival dei disperati”, all’interno del quale è prevista – al cinema Massimo di Torino – una rassegna di cinema “disperato” (ma non rassegnato). “Ci saranno film come Il Grido di Antonioni, Dies Irae di Dreyer, ma anche Morte di un commesso viaggiatore di Schlöndorff e, appunto, Viale del Tramonto di Wilder”, ci dice. CHI CONOSCE Ceronetti sa che il suo pessimismo, a tratti apocalittico, il suo schivare ogni forma di rassicurazione sul futuro e sul progresso che verrà, è come l’inchiostro della sua penna, che mai e poi mai sarà sostituita da un tasto digitale. Con quell’inchiostro, può scrivere di qualsiasi cosa, osservatore avido delle ipocrisie e delle bruttezze del nostro Paese. Ma anche “ruggire di dolore” di fronte “alla bellezza italiana sparita e sparente”, come scriveva quasi vent’anni fa nel bellissimo reportage letterario, un genere scomparso, Un viaggio in Italia (Einaudi). “Perché c’è qualcosa di immorale nel non voler soffrire per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione”. E di nostalgia di una patria perduta sono cosparsi i suoi corsivi che compaiono su La Stampa, dove scrive dal lontano 1972. Corsivi che spesso suscitano aspre reazioni per quello che agli occhi dei suoi critici appare un pessimismo reazionario, che lascia tutto com’è. Ultima tra le polemiche quella dello scrittore Fulvio Abbate che, a seguito di un articolo contro gli sbarchi di clandestini, gli ha chiesto di rinunciare all’assegno previsto per scrittori e artisti indigenti dalla legge Bacchelli. Ma il fatto è, sostiene Ceronetti, che “la verità, nelle predicazioni buoniste, è certamente impossibile trovarla”. Anzi, forse chi è buonista non tiene davvero a ciò a cui appartiene. “Io sono un vecchio a cui duole l’Italia, come la Spagna doleva a Miguel Hernandez; ma a me l’Italia duole senza speranza. E all’Italia unita tengo”. Con il suo “Risorgimento, coi suoi martiri sacri, con le sue passioni tramontate”. Chi vorrebbe sentire come un apocalittico Ceronetti vede un premier che ha fatto dell’ottimismo la sua bandiera , ottiene ancora una volta una risposta inattesa, affidata ad uno dei suoi recenti articoli. “Se in Italia c’è chi pensa che togliendo di mezzo secondo regole da inventare Berlusconi si fa il bucato a una democrazia in condizioni di agonia, dire che è di vista corta è misericordia . Gli anni di Berlusconi hanno il merito di aver fatto emergere dalla babele delle parole l’immangiabile verità di una forma democratica in sfacelo”. Una democrazia la cui ipocrisia produce il dolore e la sofferenza dei singoli, cui spesso Ceronetti ha dato voce nei suoi versi. Come quando, nel 2008, scrisse, nella raccolta Le ballate dell’angelo ferito (Il notes magico edizioni), una poesia su Eluana Englaro che in questi giorni varrebbe la pena di attaccare nelle aule di Montecitorio: “Urlate urlate urlate urlate. / Non voglio lacrime. Urlate/ Idolo e vittima di opachi riti/ Nutrita a forza in corpo che giace/Io Eluana grido per non darvi pace”. Non ci sarebbe da aggiungere altro, se non fosse che, nell’imminenza del suo addio alle scene, Ceronetti ci spiazza ancora una volta. Infatti, il prossimo 4 maggio sarà un giorno speciale. Perché un artista come lui, che ha attraversato tutti i generi, ha scelto di pubblicare a fine carriera il suo primo romanzo in senso vero e proprio. Ma la vera novità è un’altra, ed è racchiusa dal titolo: In un amore felice (sì, avete sentito bene). “È la storia di un uomo e di una donna, semplicemente”, ci dice laconico, sapendo però che in queste poche parole c’è tutto. E nel libro aggiunge: “Un uomo, una donna, che volevo ad ogni costo escludere dagli abissi consueti dell’infelicità”. Attraverso l’irruzione del desiderio, che può arrivare anche in tarda età, anche dopo mezzo secolo di scetticismo della mente, visto che, non a caso, i due protagonisti sono una ragazza e un uomo anziano: “Un obbrobrio per la nostra ragione. Ma lasciala pure gridare la ragione, mai diventerà cuore”. Come mai all’apice della sua carriera di artista addolorato e inconsolabile Ceronetti ci consegna la storia di un amore felice, che mette sotto scacco l’apocalisse? Impossibile avere una risposta a voce. Ceronetti parlerà, forse, quando il libro sarà uscito. E poi aggiunge: “Tutto quello che volete sapere su di me è scritto. Ma nei libri, attenzione, non vi fidate di Internet, che è la menzogna”. Ebbene, i lettori di In un amore felice non potranno che dargli ragione. Perché nel libro troveranno la risposta che cercano. È un’immagine, quella dei due protagonisti che, stretti sotto il lenzuolo, “si fanno l’una all’altro nicchia da lume ad olio che non ardendo rischiara” e vivono “un momento di intensa caduta nella felicità di essere, visitazione arcana alla quale noi tutti, malmenati fino alle peggiori atrocità delle vita, siamo impreparatissimi”. Quasi una grazia, aggiunge, sarebbe morire così, abbracciati, “se quella fosse l’ultima notte di sonno e sogni del mondo”.