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 2011  aprile 30 Sabato calendario

«È una nazione artificiale. Se cade Damasco è il caos» - La caduta di Bashar Assad potrebbe far riemergere le questioni irrisolte, etniche e religiose, che risalgono alla fine dell’Impero Ottomano»

«È una nazione artificiale. Se cade Damasco è il caos» - La caduta di Bashar Assad potrebbe far riemergere le questioni irrisolte, etniche e religiose, che risalgono alla fine dell’Impero Ottomano». A parlare di «rischio di caos in Siria» è Robert Kaplan, esperto di strategia del Center for a New American Security di Washington, secondo il quale «il regime per 40 anni ha imposto un nazionalismo che ora potrebbe dissolversi». L’uso dei carri armati può consentire a Bashar Assad di arginare le proteste di piazza? «La Siria si trova imprigionata in una spirale di violenza. Più civili vengono uccisi dalle forze di sicurezza di Bashar Assad, più funerali vengono celebrati, più manifestazioni si moltiplicano e più la repressione continua ad aumentare per tentare di proteggere il regime. Assad sta adoperando la forza per riprendere le redini della situazione ma la Siria non è più quella del 1982». Che cosa avvenne nel 1982? «La strage di Hama. Hafez Assad, padre dell’attuale Presidente, usò l’esercito per schiacciare nel sangue una rivolta islamica facendo almeno 20 mila morti. Ma allora Internet non c’era e le notizie si diffusero lentamente, andando di bocca in bocca, il regime riuscì così a limitare l’impatto della strage. Oggi è tutto diverso: i morti sono molti di meno rispetto a Hama, nell’ordine delle centinaia, ma i social network e le tv satellitari hanno diffuso le informazioni con tale rapidità da far traballare il regime. Se Bashar sta tentando di ripetere ciò che fece Hafez nel 1982, rischia questa volta di far crollare il suo regime». Che cosa potrebbe avvenire dopo? «Nessuno può dirlo con certezza perché la Siria è un Paese con un’identità nazionale molto debole. In realtà è anche difficile definirla una nazione. Nacque infatti all’indomani della fine dell’Impero Ottomano mettendo assieme un mosaico etnico che include i sunniti della regione di Damasco, Homs e Hama, gli eretici alawiti vicini agli sciiti delle montagne del Nord-Ovest, i drusi nelle regioni del Sud e le minoranze curde, cristiane, armene e circasse. Sono queste identità che potrebbero tornare a emergere, gettando la Siria in un caos etnico e religioso dalle conseguenze imprevedibili». Ma allora perché i manifestanti in piazza inneggiano alla Siria? «È un risultato di quarant’anni di regime autoritario degli Assad che hanno imposto l’identità siriana come una sorta di ideologia. Ma questo regime non ha dato cibo e lavoro e dunque la gente è scesa in piazza. Se dovesse prevalere la protesta, del regime potrebbe rimanere ben poco, identità siriana inclusa». Vede un’analogia con la frammentazione etnica dell’Iraq? «La Siria è assai più debole dell’Iraq perché l’Iraq ha per vicini nazioni solide come l’Iran e la Turchia o ricche come l’Arabia Saudita, mentre la Siria è circondata da aree a forte instabilità come il Libano, la Giordania, lo stesso Iraq e il confine con Israele. L’instabilità irachena ha trovato nei Paesi confinanti una cornice di contenimento. Nel caso siriano questo argine non esiste, i Paesi vicini rischiano piuttosto di essere contagiati, basti pensare al Libano». Vede un Medio Oriente in decomposizione? «Bisogna tener presente che nell’area che va dal Mediterraneo orientale all’altopiano iranico vi sono poche nazioni davvero solide, come l’Iran, l’Oman o qualche sceiccato del Golfo Persico. Tutte le altre sono frutto dei problemi irrisolti dell’Impero Ottomano, dalle guerre tribali alle dispute etniche, a cui le potenze coloniali risposero disegnando nel deserto i confini artificiali di nuove nazioni. Così nacquero Siria, Iraq e anche la Giordania». Quali potrebbero essere le conseguenze della ricomparsa delle etnie in Medio Oriente? «Nessuno può dirlo, ma è un processo che può portare a ridiscutere l’esistenza di molti Stati senza storia né identità nazionale, come la Siria. È questa decomposizione che può favorire l’affermarsi di gruppi fondamentalisti religiosi». Come spiega la cautela che dimostra Israele rispetto a quanto sta avvenendo a Damasco? «Con il fatto che Israele si trova davanti a una situazione ambivalente: da un lato vede la possibilità di un rovesciamentodel regime arabo che più di tutti si è dimostrato un bastione dell’antisionismo negli ultimi decenni, ma dall’altro teme le conseguenze della caduta degli Assad che, in una maniera o nell’altra, hanno mantenuto una pace di fatto con lo Stato ebraico sin dal 1974. Il confine del Golan è stato fra i più stabili del Medio Oriente e a Gerusalemme temono che tutto ciò possa cambiare».