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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

LUGO STREGATA DALLA MELA DI OFFENBACH, GIOIA ASSOLUTA E LEZIONE DI STILE

Il piccolo festival di Lugo ha la lodevole abitudine di presentare, ogni anno, un’opera di raro ascolto, o persino sottratta agli archivi della memoria. Abbiamo così ascoltato cose rarissime, e financo preziose, da Mercadante a Milhaud, e una lista completa presenterebbe numeri assai significativi.
Ecco ora una serata dedicata a Jacques Offenbach, con due operine o più esattamente opéra bouffes: Monsieur Choufleury restera chez lui le…, capolavoro di tagliente ironia (a spese proprio dell’opera all’italiana; e un esile lavoro comico) sentimentale, risalente al luminoso esordio del compositore impariginato, come allora si diceva; e realmente degnissimo d’essere riproposto all’inesauribile curiosità degli opera-goers, che in Romagna – il teatro, graziosissimo, è dedicato al quasi concittadino Rossini – sono particolarmente numerosi, sì da esaurire i posti, in una cittadina di poche migliaia d’abitanti.
L’operina più esile si chiama, abbastanza enigmaticamente per un pubblico italiano, Pomme d’api: una sorta di mela, con cui viene chiamata una furba servetta contesa da zio e nipote. Entrambi, s’intende, sono accaniti coureurs de femmes, anche se nel giovane prevale, infine, un sentimentalismo assai più cattivante, se non proprio convincente affatto.
Composta nel 1873, quando l’atroce episodio della Commune è appena finito, anche se non molti sembrano rendersene conto, la vicenda mostra un’allegria e, a tratti, una amabilità melodica invero accattivante e ben più impegnativa. Il trucco di rappresentare la grande vocalità di quell’epoca aurea (Sonntag, Rubini…, figuriamoci) funziona benissimo, perché la coppia di amanti conosce ogni astuzia. Gli sciocchi invitati sono dei finti connaisseurs solamente smaniosi di essere reçus, sì che nemmeno s’accorgono di venire truffati, e restano soddisfatti, come si desiderava; tutti contenti, dunque, e un matrimonio in vista.
La storiella non sarebbe particolarmente stuzzicante, se lo straordinario Offenbach non profittasse dell’occasione per fornirci un esempio, invero memorabile, di pastiche; un à la manière de Bellini, che dimostra una competenza stilistica semplicemente sbalorditiva. Non si tratta di un rifacimento generico: ciò che viene preso di mira è, in un momento che vorremmo dire sublime, proprio lo stile di un’Arcadia felice: quella della Sonnambula, per intenderci: capolavoro di esatta astuzia, quasi da strapparci le lacrime, se non sapessimo che nessuna Amina, nessuna Elvira saranno sottoposte alla tortura di un gentile mal d’amore.
L’entusiasmo che manifestano gli ascoltatori è autentico, anche se senza oggetto: il ricevimento finisce dunque in un fragoroso “Tutti”, ove il musicista sfoggia la sua bravura nell’arte non facilissima del fracasso a tutti i costi: meno noto di tanti lavori famosi (La belle Hélène, Orfée aux Enfers, La grande Duchesse de Gérolstein, La perichole…) addirittura li supera, a tratti: stante l’indiscutibile superiorità della satira (di costume, per di più) sulla farsa e il riso sfrontato. Una gioia assoluta, che è anche una intrepida lezione di stile. Offenbach arriva persino a nominare Verdi, ma purtroppo senza rifargli il verso. Non è detto che le cosucce più tarde non ne mostrino una traccia altrettanto sicura.
Parrà incredibile, ma i due numeri sono stati cantati (e recitati!) in francese: non sarà stato quello dell’Accademia, ma nemmeno l’altro delle Halles, che Offenbach ha reso, nell’operetta, immortale. Un gruppo di ragazzi vispissimi ha fatto onore alla sua scuola di apprendistato, e al testo irresistibile. Dirigeva Giacomo Sagripanti, cui vorremmo consigliare sonorità meno reboanti. I cantanti sembrarono smentire la vecchia diceria di una innata incapacità alla recitazione: sembravano pronti per affrontare, come i loro colleghi, Borges e Pinter.
Mario Bortolotto