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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

GESÙ NON AVEVA PIATTI DI CARTA

Sono andata a letto con le ossa a pezzi. Avevo resistito fino all’ultimo, ma avrei dovuto saperlo che sarebbe finita così. Ogni anno, a primavera, mi prende una furia, mi parte una follia. Sbuffo, protesto, brontolo, ma quando comincio a fare le pulizie grandi, non mi ferma più nessuno.
L’Enciclopedia moderna per la casa di Lidia Morelli del 1945, che mio padre diede a mia madre come regalo di matrimonio («pur sapendo che sei già una perfetta donna di casa» le aveva scritto nella dedica), sostiene a pagina 731 delle sue 1.000 che «solo un ordine meticoloso e un sistema razionale rendono la bisogna delle grandi pulizie più lieve di quanto non risulti a chi, pur mettendovi dello zelo, proceda saltuariamente e senza metodo».
Eccomi qui, sono io la zelante donna di casa (direbbe mio padre), ma saltuaria (una volta l’anno) e senza metodo. Quest’anno ho un aiutante, Yossi, diminutivo di Yosef, bravissimo collaboratore domestico. Per le pulizie, io credo negli uomini.
Insieme abbiamo scoperto i detergenti naturali e siamo tornati ai rimedi della saggia signora Morelli.
Praticamente, abbiamo pulito l’intera casa con aceto e bicarbonato di sodio che non vanno mai e poi mai mescolati (vedi biodetersivi.altervista.org), oppure con semplice acqua calda, alcune gocce di essenza di lavanda e tanto olio di gomito (come direbbe mia madre), senza danni per l’ambiente, e con tanta fatica.
Anche Yossi mi sembra distrutto. Ma la casa è lucida e profumata e non ci è rimasto nulla di rotto, inutile, fuori posto o sporco. E di questi tempi mi sembra importante.
Mi sento pronta per Pasqua.
Pasqua – in ebraico Pesach – dura una settimana ed è la festa della libertà.
Commemora l’uscita del popolo ebraico dalla lunga schiavitù in Egitto e l’esodo verso la terra d’Israele, migliaia di anni fa, sotto la guida di Mosè. Durante il séder (ordine, in ebraico), che è la cena solenne della festa, la prima sera, si legge l’haggadah, cioè il «racconto», che contiene un po’ di tutto: cerimonia, canzoni, storia, momenti seri e momenti divertenti. Poi, per tutta la settimana, per ricordare la partenza affrettata dalla terra dei faraoni che non diede il tempo di far lievitare il pane, non si mangia né si tiene in casa cibo lievitato o cibo che sia stato in contatto con cibo lievitato, e si mangia pane azzimo.
Complicato? A casa mia, a Padova, non lo era neanche tanto. Quand’ero bambina gran parte degli ebrei italiani prendevano Pesach relativamente in modo tranquillo. Per mia madre, grande cuoca, tanto che molti anni fa scrisse anche un libro di cucina ebraica, era soprattutto l’occasione di cucinare il suo famoso polpettone di tacchino, il suo meraviglioso salame d’oca, i suoi splendidi zuccherini con il vino e i suoi buonissimi sfoglietti in brodo con i piselli freschi; mio padre, invece, faticosamente cercava di leggere l’haggadah, a capotavola, durante il séder, senza capire una parola, e con limitato successo.
Per noi bambine era l’ennesima occasione di sentirci un po’ diverse dagli altri, perché in quella settimana non si mangiava nulla fuori di casa.
Allora non sapevo certo cosa sarebbe diventata per me la settimana di Pasqua, molti anni dopo, in Israele.
E qui devo fare una parentesi. Quando conobbi, durante un viaggio in nave, tanti, tantissimi anni fa, un ragazzo israeliano e quando lo sposai, lui mi chiese gentilmente di cucinare kasher (cioè niente maiale, niente frutti di mare, niente carne e latte insieme). Accecata dall’amore, dissi molto generosamente di sì.
Non sapevo che nei seguenti 42 anni, ogni anno, a Pasqua, sarebbe arrivato anche il kasher-le-Pesach (kasher per Pesach), un po’ più complicato, che vuol dire «consentito per Pasqua».
Mi spiego. Non sono consentiti , oltre al pane e al cibo lievitato, frumento, orzo, avena, segale e farro. Kasher-le-Pesach, inoltre, devono essere anche gli utensili di cucina, che non possono essere stati a contatto con i cibi proibiti per Pasqua (quindi vanno cambiati anche piatti, posate, bicchieri e tegami).
In questo momento, lui, come ogni anno negli ultimi 42, è di là a chiudere ermeticamente con lo scotch gli armadi in cui ha infilato tutto il non kasher-le-Pesach (come ha scritto nel cartellino che ci ha incollato sopra). Ho il dubbio che non si fidi troppo della mia concentrazione e scrupolosità, che non capiti che gli tiri fuori il piatto sbagliato, per carità; ma tanto io passo per tutta la settimana ai piatti di carta.
Eppure la sua meticolosità farebbe ridere a Bney Brak, cittadina appena fuori Tel Aviv, ma distante dalla metropoli anni luce, dove la leggenda racconta che ci sia chi filtra persino l’acqua del rubinetto per paura che ci passi del pane.
A Bney Brak, in mezzo alla strada, ogni anno, enormi pentoloni di acqua bollente vengono installati per sbollentare gli utensili di cucina e sterilizzarli da pane e lievito, e uomini, donne e bambini portano da casa pentole, tegami e posate che vengono «cotti» tra fumi di vapore, mentre la strada principale, come ogni anno, si trasforma in un colorato bazar di articoli per la casa e per le pulizie di fondo, piatti di carta, giochi per bambini, vestiti per signore (si usa vestirsi di nuovo per la festa), turbanti, parrucche, cappelli neri a larghe tese, piume e candele per scoprire briciole negli angoli nascosti (secondo la tradizione i bambini nascondono in casa 10 pezzettini di pane, e il padre, munito di piuma e candela, li deve trovare), tovaglie bianche e colorate, stracci e strofinacci, aspirapolvere e persino scarpe per signora: tutto, in vendita sul marciapiede, tra frotte di bambini, carrozzine, mendicanti che chiedono l’elemosina e un altoparlante che ricorda alle donne di vestirsi in modo casto.
Sembra di tornare indietro nel tempo, a uno shtetl (villaggio) polacco di un secolo fa, mentre a due passi la Tel Aviv laica e godereccia continua e continuerà, come ogni anno, a consumare tranquillamente anche pane.

Ma, la sera della festa, no. La sera tutti faranno il séder, credenti e non credenti, religiosi e non religiosi, e da tutte le finestre di tutte le case si udirà la vocina del bambino più piccolo della famiglia, in piedi sulla sedia, emozionato, ripetere la sua domanda rituale, la stessa da millenni: «Perché tutte le sere mangiamo pane o matzà (pane azzimo, ndr) e questa sera solo matzà?». E comparirà in tavola il pane azzimo e l’intera famiglia risponderà in coro.
Da noi saranno le gemelle di tre anni, perché l’ultima nata ha solo un mese, e saremo tanti a tavola e io cucinerò l’arrosto e l’agnello e gli «scacchi» quasi buoni come quelli di mia madre e, come ogni anno, si discuterà se cantare e che cosa cantare e come cantare, e i bambini saranno, laici o religiosi, grandi e piccoli, tutti vestiti di nuovo.
E ricorderò tutti quelli che non ci sono più e penserò a mia suocera, pace all’anima sua, cui, a fine séder, dopo che aveva cucinato tutto il giorno, cadeva sempre la testa sul piatto.
Spero che quest’anno non succeda anche a me.

P.S. Fu così che un ebreo di nome Gesù festeggiò la sua ultima cena, esattamente così. Be’, forse non con i piatti di carta.