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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

«Io, perseguitato dai Pm: inquisito e assolto 63 volte» - Sessantatre inchieste, ze­ro condanne

«Io, perseguitato dai Pm: inquisito e assolto 63 volte» - Sessantatre inchieste, ze­ro condanne. È un primato. Ma è uno di quei record di cui non si può essere orgogliosi. L’ingegner Vincenzo Lodigia­ni era l’erede di una delle maggiori imprese di costru­zioni italiane, una società edi­le nata a Piacenza e passata di padre in figlio. Un nome co­nosciuto in tutto il mondo per aver lavorato in 35 Paesi: ponti, dighe, strade, fabbrica­ti industriali, il salvataggio del tempio egiziano di Abu Simbel. All’inizio degli anni ’90, alla vigilia di Mani pulite, la Lodigiani aveva centinaia di dipendenti e fatturava mil­le miliardi di lire all’anno. I co­lossi dell’edilizia tricolore erano due: loro e Cogefar. «Avevamo commesse garan­tite per altri tre anni», ricorda l’ingegnere, oggi ottantenne. D’improvviso, il terremo­to. Procure di tutta Italia apri­ro­no fascicoli a carico dell’im­presa. Tangenti, appalti truc­cati, corruzione, finanzia­menti illeciti. Sessantatre fa­scicoli. Una pioggia di ordini d’arresto per Lodigiani, un cupo giro d’Italia da un peni­tenziario all’altro. In totale sei mesi agli arresti, tra carce­re e domiciliari. Tredici anni di calvario giudiziario. E cen­t­o giorni dopo l’ultima assolu­zione, la morte della moglie che non l’aveva mai abbando­nato. Lodigiani non parla vo­lentieri di quel periodo. Ha rotto il riserbo l’altro giorno con la «Cronaca» di Piacen­za. Non nutre animosità: «Era inevitabile fossimo coin­volti, la Lodigiani aveva sede a Milano ed era la più impor­tante impresa di costruzioni a conduzione familiare, pre­ceduta per fatturato soltanto dalla Cogefar di casa Fiat». Ma il prezzo pagato è stato altissimo. La pressione delle procure fu insostenibile. I la­vori non venivano più pagati. Le banche chiedevano di ri­torno i soldi prestati. L’impre­sa non poteva gareggiare per ottenere altre opere. Sotto un peso insopportabile, la fami­glia piacentina prese una de­cisione coraggiosa: saldò le banche e i fornitori, aiutò i di­pendenti a trovare un nuovo lavoro e uscì di scena. «Per pa­gare ogni debito la mia fami­glia ha messo a disposizione tutti i propri mezzi personali - dice Lodigiani - . L’occupa­zione fu garantita con il con­fluire in Impregilo, società che non avendo lavori in Ita­lia non era stata coinvolta in inchieste giudiziarie». «Ciò di cui vado più fiero ­confessa al Giornale - è che nessuno dei dipendenti ab­bia perso il lavoro, anzi tutte le maggiori aziende italiane del settore hanno con sé mae­stranze della Lodigiani. Sono sparsi in tutta Italia, e la cosa che mi fa più piacere è che con la grande maggioranza di loro il rapporto non si è in­terrotto. Ci vediamo, ci sentia­mo. Anche per loro è stato un trauma: dopo tanti anni in una società, cambiare è uno shock. Nella nostra vicenda, di traumi ce ne sono stati tan­ti. Sussulti che magari non fanno la grande storia, ma la­sciano ugualmente il segno». L’onore dei Lodigiani dove­va essere difeso anche nelle aule di giustizia, dove la mon­tagna di accuse si è sgretolata come ghiaia. Archiviazioni (molte delle quali decretate dagli stessi pubblici ministe­ri), assoluzioni, rare prescri­zioni; anzi, in numerosi casi è emerso che la società era in realtà parte lesa e da accusa­ta si trasformò in parte civile. Si accanirono procure di tut­ta Italia, da Roma a Milano, da Reggio Calabria a Trento, da Sondrio a Cosenza, e anco­ra Caltanissetta, Grosseto, Messina, Isernia, Torino, Pa­lermo, Firenze. Misero sotto inchiesta perfino lavori fatti in Somalia o Tanzania, gran­di opere bandite all’estero, ag­giudicate da commissioni estere, realizzate lontano dal nostro Paese. «Dov’erano i problemi di corruzione in Ita­lia? Me lo domando ancora adesso». Tredici anni di indagini si sono chiusi senza condanne né un euro dovuto come risar­cimento. «L’azienda, la mia famiglia e io siamo usciti con le ossa rotte da questa vicen­d­a e certamente l’avere supe­rato questo periodo con la fe­dina penale pulita non è un’ adeguata compensazione», confessa l’ingegnere. È anco­ra aperta la ferita di quando i suoi concittadini lo insultaro­no, in quei drammatici primi anni ’90, in piazza Cavalli, il cuore del capoluogo emilia­no. Non c’erano ancora sen­tenze, soltanto indagini in corso, e non contava che la Lodigiani avesse dato lavoro a generazioni di piacentini: il coinvolgimento nelle inchie­ste era di per sé un indelebile marchio d’infamia. E la magistratura? «Mi vie­ne in mente il mio professore di filosofia del liceo classico. Diceva: non esiste la “cavalli­nità”, esistono i cavalli. La ma­gistratura in sé non è né buo­na né cattiva. Esistono i magi­strati. E io ne ho conosciuti tanti, molti si sono compor­tanti con me in maniera cor­retta, compreso Di Pietro. Cercavano di capire come so­no andate davvero le cose. Ad alcuni invece non interes­sava capire, ma colpire».