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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

SUD SUDAN, LA SFIDA

«Goodbye Khartum» reci­ta entusiasta il cartello poco distante dal Juba international airport, in realtà poco più di una striscia asfaltata in mezzo a una distesa di terra rossa. Qualche chi­lometro dopo, osservando l’infinita sfilza di capanne di paglia accostate a precarie baracche in lamiera, viene da chiedersi, però, se l’arrivederci alla ca­pitale del nemico odiato per tanti an­ni non sia destinato a rivelarsi una terribile condanna. Perché se è giustificato l’entusiasmo per l’indipendenza appena ot­tenuta con lo storico referen­dum di gennaio, il Sud Sudan ha ora davanti a sé la sfida più difficile, quella della sopravvi­venza. Che resta, a queste lati­tudini, ancora l’unica ’tecno­logia’ davvero necessaria.

Il rischio è che, ancora prima di nascere (la secessione verrà ufficializ­zata il 9 luglio), il Sud Sudan diventi l’emblema del failed State , uno Stato in cui, per dirla con le parole di uno dei tanti cooperanti internazionali che la­vorano qui, «tutti gli indicatori uma­nitari sono centinaia di volte sotto i li­miti accettabili». Si calcola che oltre il 90 per cento della popolazione viva sotto la soglia di povertà. Di più, il ri­torno da qui a luglio di oltre 300 mila sudisti che vivevano al Nord, pone un’ulteriore sfida allo sviluppo. «I rim­patriati ci saranno di grande aiuto per­ché più qualificati – spiega il vicepre­sidente Riek Machar – ma a noi toc­cherà l’impresa di saziare anche loro, e non parlo solo di cibo».

Basta un veloce giro in auto per le stra­de di Juba, che della più giovane na­zione al mondo è la capitale, per ca­pire che qui si tratta di partire da una rete di servizi e da capacità produtti­ve del tutto inesistenti. Se a Khartum quello che colpisce è il grandissimo numero di cantieri – anche se molti sono fermi a causa della crisi econo­mica interna e internazionale – a Ju­ba il massimo che puoi aspettarti è un povero mercato locale dove la gen­te improvvisa la vendita del poco che ha. Vista da qui, Khartum pare New York. «Le infrastrutture stanno al pun­to zero. E non puoi pensare di aiuta­re la gente se non ci sono, ad esem­pio, nemmeno le connessioni strada­li », ammette il presidente Salva Kiir, tono calmo e l’espressione di chi, a sei anni dall’ascesa ad un ruolo isti­tuzionale dopo due decenni di guer­riglia, ha assunto ormai l’aplomb del capo di Stato.

Impeccabile in abito scuro e con il suo tipico cappello texano in testa, nelle scorse settimane Kiir ha ricevuto a Khartum l’inviato speciale del mini­stero degli Esteri italiano, Margherita Boniver. «Quando abbiamo firmato l’accordo di pace con il Nord, nel 2005, l’Italia faceva parte di quell’intesa in qualità di testimone – ricorda Kiir. – Anche per questo ci aspettiamo che Roma continui a darci il suo suppor­to ». «Abbiamo dei programmi di svi­luppo ambiziosi che riguardano mol­ti settori di base, soprattutto l’istru­zione e la sanità – sottolinea la Boni­ver – ma sappiamo che dopo il refe­rendum pacifico di gennaio la strada è ancora lunga. Qui già la sussistenza dall’alba al tramonto è un miracolo quotidiano. Senza contare che la po­polazione locale, che porta il peso e il dolore di decenni di guerra ininter­rotta, è ancora traumatizzata: biso­gnerà abituare la gente a convivere in pace». «Le priorità che ci aspettano – è la replica di Kiir – sono quella della sicurezza, della salute, dell’istruzione, senza dimenticare la sicurezza ali­mentare.

In ogni caso abbiamo risor­se naturali che possono essere ben sfruttate per lo sviluppo del Sud Su­dan ». Il riferimento, chiaro, è a quel petrolio che rappresenta per le autorità il 95 per cento delle entrate, ma anche il maggiore rischio di instabilità per l’in­tera regione. Il Sud deterrà infatti ol­tre i tre quarti delle riserve di greggio dell’intero Sudan: per Khartum non raggiungere un buon accordo sui pro­venti sarebbe la catastrofe. Attual­mente il greggio corre da Sud a Nord prima di arrivare a Port Sudan, sul Mar Rosso, da dove viene smistato in gran parte in Cina. Le violenze degli ultimi quattro mesi (oltre 800 i morti al Sud secondo l’Onu) certo non aiutano il negoziato. Buona parte dei raid vio­lenti contro l’Spla sudista e i civili so­no condotti, tra le altre milizie, dagli uomini di George Athor, ex generale dello stesso Spla, ma secondo Juba è il nord il regista dell’operazione.

Anche per il Sud, peraltro, una man­cata intesa sul greggio sarebbe un brutto segno: i piani alternativi, che prevedono la costruzione di un oleo­dotto in direzione del Kenya, sono ancora in fase molto pre­liminare. «Con il Nord bisogna coesistere – è la convinzione del vicepresidente Machar – ma soprattutto bisogna passa­re da una cultura della guerra alla pace. C’è ancora molta vio­lenza nella nostra società, cir­colano armi detenute illegal­mente che dobbiamo recupe­rare. Siamo una società trau­matizzata ma dobbiamo trasformarci in uno Stato moderno per poter sod­disfare le aspirazioni della nostra gen­te. Ci stiamo lavorando. A maggio, in­tanto, avremo la nuova Costituzione». La sfida da affrontare è enorme. Per o­ra l’impressione maggiore è che l’in­tero Sud Sudan assomigli a una im­mensa ’ Un land ’, terra delle Nazioni Unite e degli operatori umanitari che cercano una risposta ai bisogni di 10 milioni di persone. La dipendenza da­gli aiuti è di 1,5 miliardi di dollari an­nui. E per il 70 per cento si tratta di aiu­ti di emergenza. Il solo fabbisogno a­limentare è coperto per ben due terzi dai donatori. In un simile contesto, parlare di ’indipendenza’ sembra al più un amaro paradosso. Eppure, so­stando a Juba davanti al monumento funebre di John Garang, quegli occhi pieni di orgoglio, che risaltano nella foto dello storico leader sudista mor­to in un incidente aereo nel 2005, re­stituiscono tutto il senso del lungo viaggio di un popolo che, dopo aver tanto lottato, non vuole più avere pau­ra del suo futuro.