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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

Un mese di bombe e di missili Ma il raiss resiste - «Alla fine dovremo andare a terra, per prenderlo con le nostre mani»

Un mese di bombe e di missili Ma il raiss resiste - «Alla fine dovremo andare a terra, per prenderlo con le nostre mani». Erano le sei di sabato 19 marzo, quando una fonte dello Stato Maggiore Difesa italiano ci fece questa previsione. Gli aerei alleati già volavano verso la Libia per sganciare le prime bombe, ma lui dubitava che sarebbe bastato. Alle due di ieri la confidenza si è trasformata in profezia. Il generale olandese Mark van Uhm, Chief of Allied Operation alla sede Nato di Bruxelles, facendo il bilancio del primo mese di guerra ha ammesso: «È chiaro che le operazioni aeree hanno dei limiti». L’attacco era cominciato con i caccia francesi Rafale e Mirage che avevano preso di mira quattro carri armati libici vicino a Bengasi, cuore della rivolta contro Gheddafi. Poi era partita la pioggia di 110 missili Tomahawk americani, lanciati dalle navi, e 45 bombe Jdam sganciate da tre bombardieri invisibili B2, secondo il rapporto pubblicato il 30 marzo dal Congressional Research Service di Washington. Anche gli inglesi avevano aggiunto missili e bombe, per distruggere subito le difese contraeree, i radar e i centri di comunicazione intorno a Tripoli e lungo la costa mediterranea. Alla fine della prima giornata, 20 delle 22 postazioni anti aeree libiche erano state distrutte. Il giorno dopo erano decollati i Tornado e gli F16 italiani dalla base di Birgi, per scovare proprio gli ultimi radar ancora attivi. Il 21 marzo era caduto l’unico aereo perso finora dalla coalizione, un F15 americano partito da Aviano e precipitato per cause tecniche: salvi i due membri dell’equipaggio. Il 23, dopo 336 missioni condotte sulla Libia e 162 Tomahawk lanciati, la no fly zone copriva già dal confine con la Tunisia a quello con l’Egitto. Dalle 10 basi dove Gheddafi nascondeva 180 aerei di fabbricazione sovietica e Mirage, e circa 100 elicotteri, non si alzava più nessuno: l’ultimo che ci aveva provato, un jet volato verso Misurata il 24 marzo, era stato distrutto dai francesi. La prima fase dell’intervento, scattato in base alla risoluzione Onu 1973, era stata accompagnata anche dalle abituali polemiche sul comando. In pratica si erano svolte tre operazioni contemporanee: «Odyssey Dawn», guidata dagli americani; «Harmattan», dei francesi; ed «Ellamy», degli inglesi. Dal 19 marzo al 31 gli americani avevano sostenuto il grosso degli interventi, lanciando 184 Tomahawk e 45 bombe Jdam, ad un costo che il Congresso stima in almeno 550 milioni di dollari. Il 27 marzo la Nato ha deciso di prendere il comando, assumendo la direzione delle operazioni alle ore 8 del 31. Da allora il nome dell’operazione congiunta è diventato «Unified Protector», composta da tre elementi: embargo sulle armi alla Libia, no fly zone, e interventi per proteggere i civili. Al 18 aprile ci sono state 2.877 missioni aeree, di cui 1.199 hanno raggiunto i bersagli. Lunedì, per esempio, sono stati distrutti 9 bunker e un centro comando della 32esima Brigata a sud di Tripoli; 6 postazioni missilistiche, 3 contraeree, 4 carri armati e un lanciatore mobile di Rpg a Misurata; 3 depositi di munizioni a Sirte; 3 carri armati, un meccanizzato e una postazione contraerea a Zintan, e un edificio militare a Brega. In mare, 18 unità pattugliano le lo cadere. Solo che stavolta, come dice il generale van Uhm, «ci sono dei limiti. Gheddafi non mostra alcuna intenzione di fermarsi: usa i civili come scudi umani e nasconde le sue forze vicino alle moschee, ma noi abbiamo deciso di non colpire in queste situazioni». Dunque sta vincendo lui? «Due settimane fa avevamo degradato le sue forze del 30%, ora molto di più. Non è questione di vincere o perdere, ma di impedirgli di attaccare i civili, in modo da creare lo spazio per risolvere la crisi. Questo lo stiamo facendo con successo, e continueremo fino a quando sarà necessario».