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 2011  aprile 19 Martedì calendario

Crescere per 70 anni Ma sempre da soli - Crescere, crescere, crescere senza fermarsi mai, ma restando sempre avvinghiati alle proprie radici

Crescere per 70 anni Ma sempre da soli - Crescere, crescere, crescere senza fermarsi mai, ma restando sempre avvinghiati alle proprie radici. Crescere da via Rattazzi, ad Alba, dove il 14 maggio 1946, viene iscritta alla Camera di Commercio di Cuneo, «la ditta P. Ferrero di Cillario Pierina fu Giuseppe in Ferrero... avente per oggetto la produzione di cioccolato, torrone e dolciumi in genere» e scoprendo la pietra filosofale che trasformerà la «tonda gentile», la nocciola delle Langhe, in Giandujot e poi in Nutella. Crescere per diventare nel giro di appena cinquant’anni il colosso che trovi sugli scaffali dei supermercati del New Jersey e nelle botteghe indiane, nelle pubblicità cinesi e in quelle del Sud Africa dove Pietro ha perso la vita. Crescere, senza un anno di crisi, sull’onda di una dolcissima globalizzazione che avanza a colpi impercettibili di ovetti, Nutella e merendine; gira la testa solo a pensare quanti barattoli, quante stagnole da scartare, ci sono dietro quelle vendite complessive che - è scritto nell’ultimo bilancio - arrivano a 6,6 miliardi di euro. Crescere anche per diventare il marchio con la miglior reputazione al mondo - più dei mobili Ikea, più delle saponette Johnson & Johnson - e trasformarsi in una macchina per fare soldi che pompa contanti verso il Lussemburgo, buen retiro fiscale dove da anni batte il cuore finanziario della Ferrero Société Anonime, holding internazionale del gruppo. Un euro di profitti netti ogni dieci euro di prodotti venduti - 653 milioni in tutto nell’ultimo esercizio - e il nome del patriarca Michele Ferrero al trentaduesimo posto nella classifica mondiale, primo ovviamente in quella italiana, dei supericchi di Forbes con 18 miliardi di dollari di patrimonio personale. Crescere con il cioccolato e attorno al cioccolato - senza però disdegnare le mentine o il the freddo - come da tradizione, programma e imperativo del capoazienda e capofamiglia Michele, che ancora oggi sperimenta nuove formule nel laboratorio di Montecarlo. Proprio come suo padre, il pasticciere di Farigliano Pietro Ferrero, capostipite di una dinastia che non vedrà e che in via Rattazzi, nel secondo dopoguerra, fa di necessità virtù e sostituisce l’umile nocciola al cacao che manca. Poi è una storia che s’intreccia e scavalca quella del boom economico: i mille furgoncini che portano in Italia il verbo di Alba; la prima fabbrica - è il ‘56 - fuori dai confini, ad Allendorf; i nuovi prodotti sformati a getto continuo seguendo - e spesso anticipando - l’evoluzione dei consumi. La Nutella, quell’antica crema di gianduia che adesso spiega anche agli anglofoni che dentro ci sono le nocciole, sfonda sui mercati europei: alla metà degli ‘Anni 60 ci sono società commerciali in otto paesi, dalla Danimarca alla Gran Bretagna; nel 1969 è la volta degli Stati Uniti, da cui poi si apriranno mercati che vanno dall’America Latina all’Oceania. Sono gli anni in cui ad Alba i cattolicissimi Ferrero chiedono alla Curia il benestare per il lavoro domenicale proprio per far fronte a una domanda che non si ferma. Concesso. Diventa sempre più fitta quella trama che unisce la città e la famiglia a un mondo vicino e a quello lontanissimo. Attorno allo stabilimento - turni supplementari prima di Pasqua e di Natale, la scena ormai storica degli operai che spazzano via il fango dopo l’alluvione del ‘94 - ancora oggi gli autobus che da decenni aspettano a ogni fine turno, in partenza per le destinazioni Saliceto, Belbo, Canelli - di chi ha scelto al fabbrica ma resta a casa sua e in autunno sforna meno Rocher o Mon Cherì per pensare alla vendemmia. Dentro gli stabilimenti le tonnellate di nocciole che arrivano dalla Turchia o dalla Georgia: coltivazioni sterminate messe a punto in questi ultimi anni dai tecnici e gli agronomi Ferrero perché il gigante dei dolci non deve, non può, fermarsi mai. Capitalismo familiare puro e duro. Mai passata per la stanza dei bottoni, forse nemmeno mai arrivata nei paraggi, la quotazione in Borsa che pure tante banche d’affari si sono affannate negli anni a proporgli. Mai scalfita, nemmeno per un attimo, l’ortodossia secondo cui il capofamiglia ha l’ultima parola anche di fronte ai figli che scalpitano per cercare nuove avventure imprenditoriali. Mai riuscita - in qualche caso nemmeno tentata - la crescita a colpi di acquisizioni. La prima volta, è un remoto 1985, l’occasione è quella della Sme, quando Michele si mette in cordata con al Barilla e la Fininvest per rilevare la Cirio e i panettoni di Stato. Finirà in battaglia giudiziaria, un terreno che ad Alba non interessa proprio. Poi un quarto di secolo di operoso silenzio e in due anni due colpi che risuonano forti, segno probabile delle ambizioni ribollenti dei figli. A fine 2009 è l’affare Cadbury, che tenta davvero Alba per la possibilità di ridisegnare, con l’alleato americano Hershey’s, la mappa globale dei dolciumi. Ma l’Opa ostile della Kraft diventa un ostacolo insormontabile: Michele Ferreo e i suoi figli sono abituati a inventare, produrre, vendere. Non a fare la guerra, anche se a colpi di azioni. Poche settimane fa l’ultima - e in verità tiepidissima - tentazione, sotto il nome di Parmalat, spinta verso Alba anche da qualche pressione politica. Non sarà nemmeno questa la volta giusta per cambiare pelle. Il destino resta, nonostante i colpi del destino, nel segno di una Ferrero che cresce da sola.