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 2011  aprile 20 Mercoledì calendario

MA QUANTO CI COSTERÀ QUESTA MARCIA INDIETRO?

Diciamo le cose come stanno: nel centrodestra nessuno si è stracciato le vesti dopo che il governo ha archiviato un’avventura atomica mai cominciata davvero. Perché come era apparso sempre più chiaro man mano che l’incidente di Fukushima si manifestava in tutta la sua tragica dimensione, il referendum di giugno si sarebbe rivelato un passaggio politicamente catastrofico per l’attuale maggioranza. Non soltanto. Nel governo c’era pure qualcuno convinto che l’ondata emotiva abbattutasi dal Giappone su tutta l’Europa avrebbe esposto un centrodestra non antinuclearista a qualche rischio anche alle prossime elezioni amministrative. Meglio allora mandare pietosamente in soffitta ogni progetto. Dunque è accaduto esattamente ciò che si poteva immaginare. Nessuno scandalo, per come vanno le cose in Italia. Bisognerebbe soltanto avere il coraggio di ammetterlo, evitando soprattutto il ricorso a formule ipocrite come quella infilata nell’emendamento che seppellisce per la seconda volta (e probabilmente in modo definitivo) le ambizioni nucleariste del quarto governo Berlusconi, dove si giustifica lo stop a tutti i progetti «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche» . Perché la scienza, qui, c’entra come i cavoli a merenda. All’energia atomica si può essere favorevoli o contrari, con argomentazioni valide per entrambe le posizioni. Il problema della sicurezza esiste ed è molto serio. Come quello dello smaltimento delle scorie radioattive, mai risolto. Qualche nuclearista convintissimo, come l’ex ministro repubblicano dell’Industria Adolfo Battaglia, oggi si dice perfino persuaso che tenendo conto di tutte le variabili in gioco il tanto sbandierato minor costo del nucleare rispetto alle altre fonti è una favola. Dall’altro lato, per contro, si afferma che oltre a essere nettamente più a buon mercato l’energia atomica non ha emissioni nocive per l’atmosfera contrariamente ai combustibili fossili con i quali alimentiamo i nostri impianti. E che ci hanno reso schiavi dei Paesi produttori di petrolio. Aggiungendo che la sicurezza ha fatto passi da gigante e che non avrebbe senso opporsi alla costruzione di centrali nucleari in un Paese che ne ha decine a poca distanza dai propri confini, dalla Francia alla Slovenia. Senza considerare che una scelta del genere contribuirebbe ad affrancare l’Italia dalla sua notevole dipendenza dall’estero anche in termini di importazioni: non vogliamo l’energia atomica ma ne compriamo a rotta di collo dai francesi. Ebbene, la decisione di fare marcia indietro non ha niente a che fare con la valutazione ponderata di tutti questi fattori, unico elemento che avrebbe potuto giustificare una presa di posizione seria. Certo, dopo il dramma di Fukushima si stanno riconsiderando in tutta Europa i progetti nucleari. Sulle centrali di vecchia generazione è stato giustamente acceso un faro: e non potrebbe essere diversamente. Ma tutto questo sta avvenendo sulla base di analisi e considerazioni tecniche sulle quali si discute e si discuterà ancora a lungo. La scelta italiana invece appare dettata unicamente da motivazioni di carattere politico. Per giunta di breve respiro. Tanto da far sorgere il sospetto che anche nel rilancio del nucleare (ricordiamo che era stato uno dei cavalli di battaglia del centrodestra alle ultime elezioni politiche) l’aspetto veramente importante fosse il possibile dividendo politico. Nei cinque anni consecutivi passati in precedenza al governo, Silvio Berlusconi si era mostrato piuttosto tiepido verso l’eventualità di un ritorno al nucleare. Ogni qualvolta l’ipotesi riaffiorava veniva rammentato come in seguito al referendum del 1987 l’Italia (che pure era stata all’avanguardia in questo campo) aveva perduto progressivamente tutte le proprie competenze. E che a quel punto sarebbe stato complicatissimo rimettere in moto una macchina ferma da almeno tre lustri. Poi, passati non più quindici, ma vent’anni, ecco l’inversione a U. Va detto che nemmeno dopo quel colpo di teatro il rilancio del nucleare è sembrato essere davvero in cima ai pensieri del governo. Basti considerare che le operazioni sono rimaste ferme per almeno cinque mesi nel periodo intercorso fra le dimissioni del ministro Claudio Scajola e la nomina del suo successore Paolo Romani. E che al varo della famosa agenzia per la sicurezza nucleare, per capirci quella che dovrebbe dire «dove» si faranno le centrali, si è arrivati dopo un estenuante braccio di ferro sulle persone da mettere a capo di quella struttura. Rimasta per mesi, dopo la sua costituzione, senza nemmeno una sede fisica. Chiuso ora mestamente per la seconda volta il capitolo nucleare, resta un’incognita. Che costo ha avuto finora, e avrà nei prossimi anni, questa decisione? Qualcuno al governo si è posto la domanda? E soprattutto, ha una risposta?
Sergio Rizzo